L’arte del possibile. Nel vero senso della parola. Sono rimasto affascinato dall’intuizione di due donne in gamba, a Gallarate, provincia di Varese, appassionate entrambe di arte. Una, Viviana Innocente, è un’educatrice dell’ANFFAS Ticino di Somma Lombardo (Varese), l’Associazione Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale. L’altra, Francesca Marianna Consonni, lavora al Dipartimento educativo del MAGA, il Museo d’Arte di Gallarate, una struttura modernissima, a pochi chilometri da Milano, che starebbe benissimo in qualsiasi grande città di cultura europea.
Bene, solo a due donne tenaci e colte può venire in mente di mettere insieme, con lucida follia, un percorso espositivo di opere realizzate da uomini e donne con disabilità intellettiva, che raccontano, attraverso immagini, quadri, collage, piccole sculture, animazione teatrale, il loro modo di vivere il lavoro. Nessuna improvvisazione né superficiale buonismo nel loro agire, assieme ovviamente all’associazione ANFFAS e con il contributo della locale Fondazione Comunitaria del Varesotto. Anzi, un’attenzione certosina, un ascolto lungo e competente, una costruzione rigorosa del pensiero degli Autori, prima chiamati ad esprimere sensazioni, emozioni, desideri, e poi avvicinati, in base alle personali attitudini, a una forma di espressione artistica.
Io lavoro è il risultato, una mostra che con grande dignità ha trovato posto per alcuni giorni accanto a opere di Depero, Carrà, Morlotti, nelle splendide sale del MAGA. Alcuni di questi lavori hanno una forza, una tensione creativa, un’originalità, che lascia di stucco. E in una mattinata densa di parole, è venuto fuori un vissuto bellissimo, la restituzione di una possibile alternativa alla tristezza di questi tempi nei quali si ritiene che lavoro e disabilità siano inconciliabili, per colpa di una crisi che lascia in piedi – forse – solo i più efficienti, i più “performanti”, quelli disposti a tutto.
Nel mondo delle imprese – ma anche nell’opinione comune, ammettiamolo – c’è la convinzione che il lavoro alle persone disabili sia quasi una “generosa concessione”, un modo come un altro per far trascorrere del tempo, per uscire dall’isolamento, per dimostrare la “responsabilità sociale”. Ma niente di più, e se possibile si evita di assumere, e appena la crisi lo consente, si licenzia. I dati, impietosi, lo confermano.
E accanto a questo fenomeno c’è l’altro, più subdolo e ipocrita: limitarsi a integrare nel mondo del lavoro quei disabili che presentano “difetti minimi”, tanto insignificanti da non creare problemi, da non costringere a quel ripensamento del modello organizzativo (non è quasi mai una questione di barriere o di ostacoli fisici) che la presenza di una persona con disabilità comporterebbe.
Eppure, quando succede – e Gallarate dimostra che succede – ci si accorge che una persona con disabilità intellettiva, opportunamente formata e seguita, esce dalla dimensione di “eterno bambino” cui spesso le famiglie, inconsapevolmente, la confinano e diventa “adulto”, con una propria dimensione di orgoglio, di capacità, di competenza, di qualità.
Le aziende e le cooperative sociali che hanno accettato questa sfida in genere non si sono mai pentite, e quei lavoratori apparentemente speciali, giorno dopo giorno, si rivelano insostituibili, favoriscono anche relazioni umane al di fuori del lavoro, modificano l’ambiente, danno un senso, uno scopo, che va al di là della busta paga a fine mese.
Il punto vero, ancora difficile da ammettere, e dunque da superare, è il mantenimento di stereotipi, di luoghi comuni, di pregiudizi radicati, che costituiscono il vero handicap per le persone con disabilità che aspirano a una vita normale, che tenga conto certo delle singole diversità, ma non per affossare ed emarginare.
Perché dalla crisi, inutile dirlo, dovremo uscire tutti insieme, non solo i “sani”. Cioè quelli che ci hanno condotto a precipizio in questa situazione…