Spesso, su queste pagine, mi è capitato di tentare un bilancio dei decenni vissuti accanto e per mia figlia Silvia. Oggi vorrei scrivere qualcosa del genere in relazione alla mia collaborazione con «Superando.it», prendendo spunto da una statistica comunicatami dalla redazione, ovvero quasi quattrocento pezzi firmati dal sottoscritto, in poco meno di dieci anni.
In questo decennio molto è cambiato, ma la situazione delle persone con disabilità è rimasta fondamentalmente la stessa: indifferenza, discriminazione, negazioni dei diritti, soprusi, violenze verso le singole persone, mentre cresce e migliora la normativa in loro favore.
Questo iato è del resto perfettamente in linea con la situazione mondiale: migliorano le leggi, alcune economie “tirano”, la tecnologia avanza impetuosa, mentre aumenta abissalmente la distanza tra i ricchi e i poveri, tra le nazioni in crisi e quelle emergenti o perennemente emerse.
Ma torniamo a noi: siamo sempre più “di moda”, non vi è talk-show televisivo che non tratti – molto malamente di solito – la disabilità. Il “caso pietoso” del giorno viene presentato con gran rullìo di tamburi, da un codazzo di giornalisti variamente impegnati, da nugoli di esperti con un curriculum chilometrico, che fingono di lottare tra loro per disputarsi venti secondi in più di presenza in video e relativo adeguamento delle parcelle professionali per i clienti veri. Inutile indignarsi: così è la vita.
Ma purtroppo la vita, per le persone con disabilità, è anche violenza continua e gratuita, l’orrore delle strutture apparentemente “modello”, persino il caso di un medico che – secondo quanto affermano i giornali locali – potrebbe avere violentato ripetutamente la paziente con disabilità affidata alle sue cure.
Riecco, quindi, la solita domanda, quella di dieci, vent’anni fa: che fare? La risposta? Non rassegnarsi, mai! E continuare in tutti i modi a cercare di cambiare, possibilmente in meglio, tutto quello che ci riguarda, le Associazioni nelle linee generali e nel concreto le famiglie, perché sono le famiglie che fanno il “lavoro sporco”, quello duro, quotidiano, l’unico che paga e che si paga, davvero e in tutti i sensi.
A tra vent’anni? A tra dieci? Nessuno si illuda: al prossimo articolo!
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