All’inizio del 2009 il Parlamento Italiano ha ratificato la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, sottoscritta dal nostro Paese già nel 2007. Da quel momento la Convenzione stessa è diventata legge dello Stato [Legge 18/09, N.d.R.] e quindi è obbligatoria la sua applicazione.
Si tratta di tutelare diritti umani, sociali, civili e politici: dall’assistenza all’istruzione, dalla mobilità al lavoro, dall’informazione alla partecipazione alla vita politica. In particolare, l’articolo 2 (Definizioni) specifica il concetto di “discriminazione”: «qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo». E l’articolo 3 (Principi generali) enuncia il principio-base del documento, ovvero «il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone».
A prima vista sembra che il ventaglio dei diritti tutelati abbracci l’intera sfera dei Diritti dell’Uomo. Invece, stranamente, manca la tutela del diritto a vivere nella maniera più ampia possibile e liberamente la propria sessualità, cioè il “fare sesso” quale atto realizzatore anche del Diritto alla Felicità, sancito, quest’ultimo, dalla stessa Dichiarazione d’Indipendenza Americana del 4 luglio 1776 [«Noi riteniamo […] che tutti gli uomini sono dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità», N.d.R.].
Eppure, gli atti sessuali – come vivificanti del corpo, quale via per gioiosi scambi interpersonali, capaci di renderci più sicuri e forti del proprio ego – sono quelli più “richiesti”, benché spesso tenuti celati dalle persone con disabilità.
Da una ricerca effettuata e pubblicata da chi scrive [“Accesso al sesso. Il Kamasabile”, N.d.R.], risulta non solo la vastità del problema, ma anche le grandi difficoltà che si incontrano per risolverlo, sia da parte dei disabili sia da parte dei familiari. Difficoltà che derivano in parte dalle stesse limitazioni fisiche del disabile, ma soprattutto dal non sapere come agire da parte del familiare: tabù sociali e religiosi, difficoltà pratiche di intraprendere relazioni, imbarazzo nel chiedere e nell’esaudire, prototipi del sessualmente “bello e sano”, eccessivo pudore nel parlarne e a volte nel praticarlo da parte dei familiari, timore di futuri abbandoni del/della partner.
E così le persone con disabilità fisica grave o mentale sono quasi sempre private di un diritto umano fondamentale: la realizzazione della sessualità e delle sue pulsioni, una condanna che suona come “un ergastolo”.
Ma allora, se si tratta del più profondo dei diritti umani, come mai la Convenzione ONU non lo cita? A meno che, forzando un po’ le Definizioni e i Principi generali di essa, non lo si voglia includere tra i concetti generali sopra accennati, la cosa appare incomprensibile. L’ONU, infatti, si rivolge a tutti i Paesi del mondo, di qualsiasi organizzazione sociale e religione alle quali si riferiscano i rispettivi cittadini.
Sappiamo che in molti Paesi il “fare sesso” è un concetto “meno inibito” che in altri e là se ne parla e lo si fa più liberamente e in modo più sano e spontaneo. Quindi, o l’ONU ha scelto di non citare tale diritto per non provocare “spaccature interne” – e in tal senso la mancata firma dello Stato Vaticano, per non essere stato inserito nella Convenzione il diritto alla vita “sin dal suo concepimento” la dice lunga – oppure, semplicemente, se n’è dimenticato. E tuttavia, in quest’ultimo caso, forse se ne sono dimenticati anche quegli esponenti dell’associazionismo mondiale dei disabili presenti nelle fasi di elaborazione della Convenzione, che avrebbero così lasciato un vuoto pericoloso nella sfera dei diritti umani.
Il problema, quindi, persiste e ogni persona con grave disabilità rimane sola e in solitudine di fronte ad esso, i familiari restano “inesperti” – e molti di loro ancora avviluppati in un concetto di “sessualità handicappata” – mentre gli operatori sociali più volonterosi sono frenati da una legislazione che vieta loro di favorire atti così intimi e socialmente vietati.
E così, anziché far vivere il diritto al sesso, si adoperano sotterfugi: si porta il disabile da prostitute o queste ultime alla sua casa, si organizza una rete di prostitute/i specializzate/i (come in Danimarca, Olanda, Svezia) o si allevia la tensione sessuale del figlio/a tramite la masturbazione o, addirittura, con il rapporto incestuoso. E lo si fa di nascosto, come “cosa proibita e indecente”, colpevolizzando in tal modo anche il/la disabile, facendo vivere il sesso come “cosa sporca” e certamente non gioiosa.
Invece, occorre parlarne con maggiore serenità e coraggio, liberando dall’”ergastolo” e dalla tortura cui queste persone vengono “condannate”, non a causa del loro corpo bensì da una cultura sessuofobica che permea di sé la vita di quasi tutti. E bisogna farlo non solo per pretendere diritti, ma soprattutto in nome dell’essere umano che glorifica ogni pulsione positiva verso un’altra persona al di là delle limitazioni del proprio corpo: si tratta di una battaglia difficilissima e lunga, individuale e collettiva, per una più completa Libertà di tutti e di ciascuno.
*Presidente della Lega Arcobaleno.
Sulla questione della mancata sottoscrizione della Convenzione ONU da parte della Santa Sede, suggeriamo la lettura – sempre nel nostro sito – dei seguenti testi a suo tempo pubblicati: Perché non condividiamo la scelta della Santa Sede (dipsonibile cliccando qui), Figli di un dio minore? (disponibile cliccando qui), La Santa Sede risponde alla FISH (disponibile cliccando qui), Ancora no dal Vaticano alla Convenzione (disponibile cliccando qui) e La Chiesa e i diritti dei disabili (disponibile cliccando qui).
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