Mani veloci si muovono nell’aria disegnando con eleganza figure immaginarie: almeno una volta a tutti è capitato di osservare stupiti un interprete della lingua dei segni intento nella traduzione di un discorso. Il mio personale approccio con la sordità è partito da lì.
Non mi era mai capitato di scrivere di persone audiolese, che nella mia ignoranza avevo sempre viste come una comunità “chiusa”, appartata perfino all’interno della disabilità stessa. Ho iniziato a informarmi e mi si è aperto un mondo.
Primo preconcetto crollato: non tutte le persone sorde conoscono la lingua dei segni, perché da tempo essere sordi non significa più essere muti. Sviluppo della parola e autonomia nella comunicazione, infatti, sono possibili con precoci percorsi riabilitativi. Protesi acustiche, impianti cocleari, sottotitoli, domotica e tecniche informatiche, applicate anche ai cellulari, si sono affiancati alla riabilitazione logopedica, rompendo il muro del silenzio. Oggi una persona con deficit dell’udito può “sentire” nel modo che gli è più congeniale.
Mentre mi documentavo, poi, ho conosciuto attraverso alcuni articoli Derrick Coleman, il primo giocatore di football americano non udente che ha vinto il Superbowl con i suoi Seattle Seahawks. Un’impresa titanica farsi strada in uno sport dove la parola urlata sul campo è un elemento distintivo. Le tecnologie compensative hanno ridotto le distanze, il resto l’hanno fatto la forza del campione e il gioco di squadra, inteso come relazioni umane all’interno del gruppo.
Sempre nel corso del mio “tour esplorativo”, ho letto poi di polemiche tra Associazioni di categoria riguardo un Disegno di Legge che, a detta di alcuni, sancirebbe l’egemonia della lingua dei segni rispetto alle moderne terapie, segnando un passo indietro nell’integrazione sociale. Eppure ci sono persone che ancora si esprimono con il linguaggio gestuale, desiderano continuare a farlo, mi pare corretto garantire e tutelare questa loro scelta.
Lo dice del resto anche la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che include appunto la lingua dei segni nei sistemi di comunicazione e ribadisce la libertà di espressione e di opinione con differenti linguaggi, verbali e non. Questo, tuttavia, non preclude diversi approcci alla sordità, se vogliamo più sofisticati in quanto legati al mondo odierno, senza dubbio costruttivi perché non trasmettono l’immagine della persona sorda come membro di “un’etnia” che parla una lingua ignota ai più.
In ogni caso, che la si consideri un retaggio della storia da conservare solo in quanto tale, che la si utilizzi ancora per comprendere e farsi comprendere, la lingua dei segni rimane un linguaggio “misterioso” che merita di essere conosciuto. Ho pensato di provare a scoprire insieme ai Lettori la sua storia antica e affascinante.
Da Platone alle prime scuole per non udenti
Un brano di Platone è la fonte più antica che attesta una forma di comunicazione gestuale dei sordi. Il grande filosofo non aveva paura della “diversità” dei non udenti, come la maggior parte della gente della sua epoca, era rapito anzi dal loro modo di comunicare idee, pensieri e sentimenti.
Per moltissimo tempo la sordità fu considerata una “punizione divina” come qualsiasi altra forma di disabilità. Solo a partire dal XVI Secolo, i bambini audiolesi cominciarono ad essere educati, anche se si trattava di un’istruzione riservata ai figli delle classi abbienti.
Le prime notizie storiche di una lingua dei segni usata nell’educazione dei piccoli non udenti si riferiscono a un monaco benedettino del Cinquecento, Pedro Ponce de Leon, inventore di un alfabeto manuale nel quale ad ogni lettera corrispondeva un gesto della mano. Così il monaco educò i tre figli sordi di un nobile castigliano e nel 1620 teoria e pratica del suo sistema vennero illustrate nell’opera Reducción de las letras y arte para enseñar à hablar los mudos.
Nel 1760 nacque la prima scuola pubblica per sordomuti, l’Istituto Statale dei Sordomuti di Parigi, voluto dall’abate de l’Epée, che elaborò una lingua dei segni utilizzando i gesti già usati dai suoi allievi, integrati con altri segni per gli elementi grammaticali e sintattici delle frasi.
All’abate de l’Epée si deve un approccio integrale all’istruzione: egli infatti promuoveva diversi e sempre nuovi interessi nei ragazzi, per favorire una crescita armoniosa della personalità. L’efficacia del suo metodo divenne oggetto di alcune pubbliche dimostrazioni, durante le quali si comprese che con quel sistema, in seguito perfezionato dall’abate Sicard, era possibile insegnare ai sordi anche il greco e il latino.
La scuola parigina venne visitata da Thomas Gallaudet, un religioso americano che tornò negli Stati Uniti con un insegnante non udente, Laurent Clerc, il quale durante il lungo viaggio in nave gli insegnò la lingua dei segni. Da quest’esperienza, nel 1817, nacque la prima scuola americana per sordi ad Hartford nel Connecticut, seguita nel 1864 dal Gallaudet College di Washington voluto da Edward Miner Gallaudet, il figlio di Thomas.
Esperienze educative nel nostro Paese
Anche in Italia, inizialmente, fu l’interesse dei religiosi a dare impulso all’educazione dei non udenti. Nel 1783, infatti, l’abate Tommaso Silvestri si recò a Parigi dall’abate de l’Epée, per desiderio dell’avvocato Pasquale Di Pietro, che a Roma voleva aprire un istituto per sordomuti. La prima scuola italiana per sordi vide la luce l’anno successivo, ospitata proprio nella casa dello stesso avvocato Di Pietro.
L’abate Silvestri diresse l’istituto e vi insegnò fino al 1789, anno della sua morte, applicando un metodo di educazione bilingue basato sulla lettura labiale supportata dalla lingua dei segni come comunicazione primaria. Questo sistema risulta dal manuale Maniera di far parlare e di istruire speditamente i sordi e i muti di nascita, scritto di pugno dall’abate Silvestri e conservato nella biblioteca della scuola.
Per tutto il XIX Secolo l’opera dei vari ordini religiosi fu fondamentale nell’educazione dei sordi e nello sviluppo di molti istituti per sordomuti in diversi Stati della penisola. La presenza capillare dei sacerdoti sul territorio e la facilità con cui potevano spostarsi da uno Stato all’altro favorirono la trasmissione dei contenuti scolastici e nelle scuole iniziarono ad insegnare educatori non udenti; tra questi si ricordano in particolarePaolo Basso, Giacomo Carboneri e Giuseppe Minoja.
Nel 1880 il Congresso Internazionale per il Miglioramento della Sorte dei Sordomuti, svoltosi a Milano, provocò una rottura fra i sordi e gli udenti, con i primi che accusarono i secondi di non averli consultati nella scelta del metodo educativo più idoneo, un “Nulla su di Noi senza di Noi” ante litteram. Il Congresso era stato infatti concepito a favore del sistema oralista, che escludeva totalmente l’uso dei segni, sfruttando al massimo i residui uditivi e potenziando la lettura labiale. I delegati – selezionati appositamente per bandire la lingua dei segni – votarono una risoluzione che privilegiava la lingua orale; dagli Atti di quel Congresso emerge che i pochi sordi presenti firmarono una mozione contraria che non venne neppure sottoposta a votazione.
A congresso concluso, venne dunque abolito l’insegnamento della lingua dei segni e scomparvero i docenti sordi, in linea con l’affermazione che concluse l’incontro: «Il gesto uccide la parola».
Di fatto, però, mentre in classe si seguiva il metodo oralista, nella vita all’interno degli istituti si continuarono ad utilizzare i segni in tutte le situazioni in cui occorreva la certezza che il messaggio arrivasse a destinazione senza equivoci, ad esempio per gli avvisi, per la confessione e perfino durante la Messa.
Alla fine dell’Ottocento, l’Istituto per Sordi di Roma arrivò ad ospitare fino a trecento alunni; nel 1889 esso trovò sistemazione nell’edificio di via Nomentana dove tuttora è sito.
All’inizio del Novecento, poi, la direzione passò nelle mani dei laici, esclusa la sezione femminile che continuò ad essere diretta dalle suore. Con la proclamazione della Repubblica, nel 1946, passò sotto il controllo del ministero della Pubblica Istruzione e insieme alle scuole di Milano e Palermo, diventò uno dei tre Istituti Statali per Sordi.
Fino al 1950 i ragazzi entravano in convitto all’età di 6-8 anni e vi restavano per circa dieci anni, imparando anche un mestiere nei numerosi laboratori artigiani, ma al termine degli studi ricevevano solo un attestato di accertata cultura utile per il lavoro. Dopo il 1950 vennero ammessi i bambini a partire da 4 anni e divenne possibile ottenere la licenza elementare; per la licenza media si attesero gli Anni Sessanta, quando venne avviata un’esperienza sperimentale.
Nel 1977, in seguito alla Legge 517, che abolì le scuole speciali, l’Istituto per Sordi di Roma iniziò la sua trasformazione in Centro Studi sulla Sordità. La realtà attuale vede un centro di documentazione d’eccellenza che offre a insegnanti, psicologi, famiglie, logopedisti e operatori in genere, una consulenza aggiornata sulla sordità, con una fornita biblioteca-videoteca-mediateca dedicata alle problematiche educative e psicolinguistiche dei non udenti.
Le lingue dei segni
La lingua dei segni è una forma di comunicazione completa con un lessico e una grammatica con cui è possibile esprimere qualsiasi messaggio. Il primo a intuirlo funegli Anni Sessanta l’americano William C. Stokoe Jr. il quale dimostrò che la Lingua dei Segni Americana (ASL) aveva le medesime caratteristiche delle lingue vocali. Conclusione cui arrivò anche l’italiana Virginia Volterra, che alla fine degli Anni Settanta effettuò ricerche sulla Lingua Italiana dei Segni (LIS).
Ma come può un gesto essere posto sullo stesso piano di una parola? Le parole che pronunciamo sono la combinazione di un certo numero di suoni detti fonemi; analogamente, in una lingua gestuale, i segni sono il risultato della combinazione di quattro parametri: luogo, configurazione, orientamento, movimento. I segni così formati sono il lessico di una lingua dei segni. Ma sono le precise regole grammaticali il tratto distintivo di tutte le lingue dei segni presenti nel mondo. La direzione, la durata, l’intensità e l’ampiezza dei movimenti, insieme alle alterazioni sistematiche del luogo di esecuzione dei gesti, sono i mezzi con cui viene espressa la grammatica. La sintassi è invece il risultato dell’ordine dei segni nella frase, di espressioni facciali, orientamento e postura del capo, degli occhi e del corpo.
Ogni Paese ha una propria lingua dei segni, tramandata di generazione in generazione, con varietà regionali e addirittura all’interno della stessa città, dovute alle differenze che sussistevano tra gli Istituti per Sordi. Accantonato il progetto di un “Esperanto dei Sordi”, valido per tutti i Paesi, attualmente la lingua dei segni più utilizzata nel mondo è il citato ASL (che sta per American Sign Language), originario degli Stati Uniti, ma abbiamo, come detto, anche la LIS (Lingua Italiana dei Segni), il BSL (British Sign Language), l’LSF (Langue des Signes Française), l’LSE (Lengua de Signos Española) e così via.
Cambiano da nazione a nazione e si modificano nel tempo anche gli alfabeti manuali o dattilologie, usati per rappresentare le singole lettere, nei quali i gesti si eseguono con una sola mano all’altezza del collo. Alcuni decenni fa in Italia si diffuse un alfabeto manuale che conoscevano anche gli udenti.
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