Il recente dibattito che si è sviluppato attorno alla proposta di Dario Ianes [tale proposta è stata articolata da Ianes nel libro intitolato “L’evoluzione dell’insegnante di sostegno. Verso una didattica inclusiva” e consiste sostanzialmente nell’idea di rimandare nelle classi l’80% degli attuali insegnanti di sostegno, mentre il restante 20% dovrebbe diventare un gruppo itinerante di docenti “super specializzati”. Su queste stesse pagine se n’è ampiamente occupato ad esempio Salvatore Nocera, N.d.R.] ha avuto il merito di portare in superficie alcune delle più significative posizioni che riguardano il ruolo dell’insegnante di sostegno: uno specialista distinto dal Consiglio di Classe? O un insegnante tra gli insegnanti con specifiche competenze anche nell’attività di sostegno?).
La montagna di discorsi e riflessioni che si è generata in queste ultime settimane rischia di far perdere di vista il centro della questione didattica (e più formalmente legislativa) che giustifica la stessa esistenza della figura professionale dell’insegnante di sostegno. Il riferimento, ovviamente, è al fatto che l’Italia ha scelto – per noi giustamente – di percorrere la difficilissima strada dell’integrazione degli studenti con disabilità, piuttosto che quella dell’esclusione. Integrazione che significa socializzazione e partecipazione a una dimensione esistenziale di gruppo che le “scuole speciali”, per la loro stessa ragione fondante, escludono in partenza quasi interamente. E integrazione significa anche inclusione didattica entro un contesto classe che si forma culturalmente.
Ora, se lo scopo didattico, garantito dalla legge, consiste nel fare tutto il possibile per integrare in classe (con tutta la ricchezza semantica che questo termine porta con sé), è evidente che l’intero Consiglio di Classe deve avere questa finalità in ogni istante della propria azione didattica.
Vale la pena ribadire che l’unità fondamentale a cui, a nostro avviso, il processo di integrazione deve far riferimento è il gruppo classe, che è lo strumento per la costruzione dei sostegni diffusi, piuttosto che il “sostegno marcante”. E questo perché l’operazione di integrazione è sempre multidirezionale: dell’alunno disabile verso la classe e viceversa (solo per rimanere al rapporto tra pari). Inutile ricordare quale alto valore democratico, etico e sociale abbia, per tutta la classe, poter accettare le differenze (tutte) che scorrono al proprio interno.
Su questo punto uno strumento di grande utilità per chi opera nel sostegno viene dalla normativa che prevede la contitolarità della cattedra e la compresenza in classe dell’insegnante di sostegno e del docente di disciplina (basti su questo la risposta del Ministero ad uno dei quesiti ad esso posti più frequentemente [FAQ, N.d.R.]: «L’insegnante per le attività di sostegno è un insegnante specializzato assegnato alla classe dell’alunno con disabilità per favorirne il processo di integrazione. Non è pertanto l’insegnante dell’alunno con disabilità ma una risorsa professionale assegnata alla classe per rispondere alle maggiori necessità educative che la sua presenza comporta. Le modalità di impiego di questa importante (ma certamente non unica) risorsa per l’integrazione, vengono condivise tra tutti i soggetti coinvolti (scuola, servizi, famiglia) e definite nel Piano Educativo Individualizzato»).
Purtroppo, nella pratica quotidiana tale strumento normativo è andato assestandosi ben lontano da quello che la legge indica: la contitolarità, infatti, non è percepita come tale se non in qualche raro e illuminato caso, mentre la compresenza non sempre si ottiene ed è un traguardo molto arduo da raggiungere. È significativo che spesso gli insegnanti più sensibili alla normativa siano proprio coloro che hanno avuto esperienza diretta come insegnanti di sostegno e ora sono titolari di cattedra. Già su questa dinamica si dovrebbe riflettere con attenzione.
Alla luce della situazione attuale, in cui vi sono purtroppo ancora delle resistenze all’integrazione, molto è ancora da fare. In che modo? Seguendo quali direzioni?
Questi strumenti privilegiati non possono che essere la scuola e i suoi insegnanti (tutti). Certo, un’attenzione particolare spetta all’insegnante di sostegno la cui figura va ripensata al fine di un suo potenziamento, con un ruolo sempre più organico al Consiglio di Classe. In altre parole, occorre un insegnante di sostegno in grado di contribuire con forza e autorevolezza alla prassi dell’integrazione. Allo stesso tempo, però, è bene rimarcare il concetto: l’integrazione dello studente è affare di tutti i docenti del Consiglio di Classe e non del solo docente di sostegno.
Se partiamo da queste considerazioni, tutte le polemiche di queste settimane trovano una risposta quasi automatica: non dobbiamo perdere di vista l’integrazione. Anzi, dobbiamo continuare a percorrere la via tracciata fino a qui a fianco di tutti i soggetti interessati (si pensi al ruolo fondamentale delle famiglie!). E proseguire non fermandoci a contemplare l’esistente, ma cercando di migliorare, magari mettendo da parte posizioni di conservazione.
Infatti, secondo la nostra esperienza, questo cammino può non solo continuare, ma vedere un ulteriore rilancio qualitativo. Pur con tutti i progressi compiuti fino a qui, per le ragioni sopra descritte, ancora oggi diventa difficile abbattere il muro della distinzione tra insegnante di sostegno e insegnante curricolare. Solo in pochi casi i docenti curricolari sono disponibili al dialogo completo con il collega di sostegno. Spesso gli viene delegato totalmente lo studente in difficoltà. I più sensibili sono solitamente insegnanti curricolari che, nel corso della loro carriera, sono stati anche insegnanti di sostegno. Le affermazioni di questi ultimi facilitano enormemente la collaborazione: «Rimani pure in classe, sono stato anch’io insegnante di sostegno, voglio contribuire anch’io al percorso di crescita dell’alunno».
Allora, come facilitare il lavoro dell’insegnante di sostegno? Noi crediamo che la questione fondamentale sia che egli venga riconosciuto dai colleghi – e simmetricamente si senta riconosciuto – come un insegnante al cento per cento. Anzi, sarebbe auspicabile che l’integrazione avvenisse superando la figura tradizionale dell’insegnante di sostegno: non tanto per eliminarne la centralità, ma per coinvolgere tutti i docenti nell’integrazione degli alunni con disabilità. Il docente curricolare – proprio perché responsabile dell’inclusione in egual misura dell’insegnante di sostegno – dovrà avere, in futuro, competenze e conoscenze in didattica speciale. E al tempo stesso il docente di sostegno dovrà poter ritornare sull’insegnamento curricolare. La cosiddetta “triangolazione del punto di vista”, così importante per una scuola di qualità, il lavoro reale d’équipe, in cui ciascuno sperimenta nella pratica professionale ed esistenziale la prospettiva dell’altro, garantirebbe la vera integrazione.
È dunque facile capire come la continuità non abbia affatto bisogno di obblighi normativi né di imposizioni dall’alto che la realizzerebbero solo sulla carta, lasciando scoperte questioni fondamentali, come quella della qualità didattica e della motivazione dei docenti. In realtà, non ci sono imposizioni di alcun genere che possono produrre il risultato desiderato.
Come ottenerlo, invece? Facendo in modo che chi opera su sostegno in una classe possa anche insegnare la propria disciplina in un’altra. Il docente di sostegno (ad esempio per la disciplina Inglese) in una classe, potrebbe contemporaneamente essere il curricolare collega che insegna italiano in un’altra classe dove opera l’insegnante di inglese. Collaborando a livello di attività curricolare in una classe, faciliterebbe il lavoro comune a livello di integrazione e sostegno in un’altra classe. Ci sarebbe maggiore conoscenza reciproca, collaborazione, comune sentire e rispetto per tutti i ruoli.
Si pensi, ad esempio a come sarebbe più semplice contribuire al raccordo tra discipline affini. In questo caso si creerebbe una sintesi tra letterature, ma anche tra grammatiche. E questi sono obiettivi che difficilmente si possono realizzare attraverso delle costrizioni normative. Ecco che l’integrazione degli alunni comincia con l’integrazione degli insegnanti.
A nostro avviso la cattedra mista garantirebbe questo binomio, perché, ancora una volta, essa nascerebbe da una visione d’insieme, tenendo conto dei diritti degli alunni e delle famiglie, ma non dimenticando la motivazione come elemento costitutivo di un’integrazione di qualità.
Gli insegnanti che si trovassero ad operare in questa nuova dimensione didattica potrebbero offrire grandi opportunità di apprendimento ai propri studenti (tutti ovviamente). Si lavorerebbe così per aree disciplinari di competenze, generando un circolo virtuoso nei meccanismi di comunicazione e di apprendimento.
Si pensi alle possibilità di formazione curricolare che offrirebbe ai singoli studenti. Una classe così organizzata, in breve, sarebbe una classe certamente più ricca di opportunità di quanto non lo siano quelle in cui, oggi, è inserita la presenza dell’insegnante di sostegno.
Si fa tanto parlare della forza del “modello aziendale”, tanto da volerlo applicare al mondo della scuola. Non ci compete compiere valutazioni complessive su tale proposta. Certo che, se dalle aziende dobbiamo importare qualcosa, ebbene, questa dev’essere la cura della motivazione, del rispetto e dell’integrazione che un gruppo di lavoro vincente deve costruire, se vuole conseguire un comune successo formativo.
Una delle parole più frequenti tra coloro che rivendicano la necessità di un miglioramento dell’inclusione scolastica e dell’integrazione è la continuità didattica: garantire cioè a un alunno e alla sua famiglia la certezza che il docente di sostegno potrà accompagnarlo per l’intero percorso scolastico. La continuità è fondamentale, ne siamo certi, ma non si realizza con una semplice imposizione che non tiene conto della dimensione motivazionale dei singoli attori. La continuità deve quindi essere accompagnata dalla qualità della didattica, dell’approccio, della relazione con tutti i protagonisti dell’integrazione.
Per tutto ciò riteniamo che, attualmente, la proposta di Dario Ianes sia uno strumento interessante che offre grandi possibilità per l’integrazione a 360 gradi. Siamo aperti a considerare tutti gli altri strumenti che ci verranno proposti, ma a una condizione: devono chiaramente offrire maggiore integrazione e non rendite di posizione per chi – magari per pigrizia o per qualche altro insondabile motivo – vuole rimanere ancorato alla mera gestione dello stato attuale o peggio un ritorno mimetizzato alla dimensione delle “classi speciali”.
Diamo la possibilità a chi è motivato dal proprio dovere di professionista di fare ciò per cui la normativa ha richiesto il suo contributo: l’integrazione. Non facciamo dell’insegnante di sostegno un corpo estraneo al Consiglio di Classe; non costruiamo, attraverso proposte pericolose, nuove barriere anche tra i docenti. Se l’insegnante di sostegno opera con gli altri insegnanti, deve parlare la loro lingua, dev’essere uno di loro, deve sentirsi uno di loro al cento per cento.