La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia con una specifica norma [Legge 18/09, N.d.R.], impone una profonda revisione della normativa e una riorganizzazione dei servizi e delle politiche a partire dalla stessa definizione di “persona con disabilità”. È un’istanza recepita dal Programma d’Azione Biennale per la Disabilità, emanato tramite il DPR del 4 ottobre 2013.
E tuttavia, non è certo sufficiente modificare il linguaggio (disabilità con handicap), ma è piuttosto indispensabile ricondurre la valutazione della disabilità (persona, interazione, ambiente) alle finalità della Convenzione: l’individuazione della disabilità, infatti, è funzionale alla promozione dei diritti umani, all’inclusione, alla modificazione dell’ambiente, al contrasto alla discriminazione, all’impoverimento, alla segregazione.
E qui si potrebbe anche chiudere questo approfondimento sui sistemi di accesso, riconoscimento e certificazione della condizione di disabilità, dal momento che le persone con disabilità – molto più degli “addetti ai lavori” – hanno una crescente consapevolezza di che cosa significhi essere “accertati”.
Ma è altrettanto chiaro agli “addetti ai lavori” quale sia il costo economico, l’impatto organizzativo, le ricadute effettive di quello che possiamo – un po’ pomposamente – chiamare “sistema di accertamento”?
Disabile, invalido, handicappato, handicappato grave e/o gravissimo, non autosufficiente, gravemente non autosufficiente, persona con ridotte o impedite capacità motorie, persona con grave limitazione alla capacità di deambulazione, oligofrenico, irregolare psichico, persona a responsività limitata… e si potrebbe proseguire ancora, con il florilegio di definizioni tutte presenti, vigenti e cogenti in una normativa che baldanzosamente consideriamo la più avanzata del mondo, ma che ben poco risponde ai crismi di una buona regolazione.
Dietro la terminologia e il linguaggio, assai poco coerenti nel tempo e nei contesti, c’è sempre un beneficio, una provvidenza, un’agevolazione, l’accesso a un servizio, che per essere ottenuti richiedono uno “status”, uno specifico iter, un accertamento e un “soggetto preposto”, che solitamente è un medico o una commissione prevalentemente sanitaria.
Inoltre, per l’accesso al sistema di servizi e prestazioni, in Italia non è quasi mai sufficiente la verbalizzazione di uno “stato invalidante”, ma sono richiesti anche altri requisiti, ora di età, ora di limiti reddituali, ora di altro tipo soggettivo o materiale. All’accertamento sanitario si aggiunge, quindi, anche quello più schiettamente amministrativo.
Esiste pertanto nel nostro Paese una proliferazione di momenti accertativi derivante proprio da questa frastagliata regolazione, che ben poco ha a che vedere con i diritti umani e sociali. Ma quanto ci costa tutto ciò? E ha ancora senso?
Una persona con una minorazione – fisica, sensoriale o intellettiva che sia – che intenda ottenere lo status di invalido o di persona con handicap (Legge 104/92) viene sottoposta a visita presso una Commissione. Questa Commissione dell’ASL è composta da 5 medici (uno INPS) e viene integrata con un operatore sociale e uno specialista nel caso si debba valutare l’handicap. Totale: 7 operatori.
Nella quasi totalità delle Regioni, i medici – prevalentemente del Servizio Sanitario Nazionale – percepiscono un gettone. In pochissime altre realtà l’attività fa parte della normale attività di servizio.
Una volta conclusa la visita, il verbale di invalidità o di handicap viene trasmesso all’INPS dove un’altra Commissione (altri 6 operatori) effettua la verifica degli atti e, se del caso, convoca nuovamente la persona, iter, questo, che comporta ovviamente il coinvolgimento dei servizi amministrativi di ASL e di INPS. Una stima molto prudenziale del costo di ciascuna visita è di 250 euro. Sembra poco ma vediamo le consistenze globali.
In Italia, ad esempio, è stimata la presenza di 250.000 persone con la malattia di Parkinson. A causa delle specificità di tale patologia, queste persone, nell’arco della loro vita, vengono “accertate” mediamente quattro volte (per altro con modalità valutative assai disomogenee). Totale: un milione di visite, ovvero 250 milioni di euro per le sole persone con malattia di Parkinson.
Passiamo ora ai dati reali e testimoniati. L’ultimo Bilancio Sociale dell’INPS ha registrato nel 2013 circa 1.350.000 domande di accertamento (ciascuna domanda spesso contiene richieste per diversi benefìci), che significano altrettante visite. Costo stimato per il sistema: 337,5 milioni di euro annui variamente distribuiti fra Stato, INPS e Regioni. Sono esclusi dal conteggio i costi a carico del cittadino e gli oneri amministrativi che subisce.
Dal 2011 l’intero sistema è informatizzato e telematizzato grazie al supporto tecnico dell’INPS. In realtà ciò – per espressa affermazione della Corte dei Conti (Determinazione n. 101/2013) non ha prodotto grandi benefìci per il cittadino. Se infatti nel 2011 fra la presentazione della domanda di accertamento e l’erogazione delle provvidenze economiche trascorrevano in media 278 giorni per l’invalidità civile, 325 per la cecità civile e 344 per la sordità (Corte dei Conti, Determinazione n. 91/2012, pagina 66), nel 2012 (ultimo dato utile) i tempi si sono ulteriormente dilazionati: 299 giorni per l’invalidità, 338 per la cecità e 399 per la sordità (Corte dei Conti, Determinazione n. 101/2013, pagina 59).
Siccome poi le prestazioni ricorrono dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della domanda, dopo 120 giorni iniziano a “correre” pure gli interessi passivi, cosicché nel 2012 l’INPS ne ha pagati per un totale di 64,3 milioni di euro e il 66,3% di questa cifra riguarda le provvidenze agli invalidi civili pagate in ritardo: 42,6 milioni annui (Corte dei Conti, Determinazione n. 101/2013, pagina 54).
Ma non è tutto. Infatti, il sistema tabellare adottato per soppesare l’invalidità e l’incertezza valutativa attorno ai concetti di «atti quotidiani della vita» e di «handicap con connotazione di gravità», producono un contenzioso di mole enorme.
Ancora due dati prodotti dalla Corte dei Conti: nel 2012 c’erano 283.823 cause civili giacenti. Nel corso dello stesso anno sono state avviate 110.583 azioni civili (Corte dei Conti, Determinazione n. 101/2013, pagina 82). Cause che l’INPS perde quasi nella metà dei casi.
Dunque: in ogni causa o in ogni accertamento tecnico preventivo sono coinvolti il legale del cittadino, quello dell’INPS, i due periti di parte, il consulente tecnico di ufficio del Tribunale. Una stima prudenziale media dei costi di ciascuna azione – senza considerare l’impegno del Giudice e del Tribunale – è di 1.500 euro, cosicché riferendosi alle sole nuove azioni presentate nel 2012, la stima di questo “giro di affari” è di 165,9 milioni di euro annui.
Tutte queste riflessioni riguardano ovviamente il regime normale del sistema, cioè gli accertamenti ordinari e non quelli di verifica straordinaria affidati all’INPS, con la gigantesca campagna di controllo sui cosiddetti “falsi invalidi”, azione che ha prodotto più stigma e spesa che risultati concreti. Oggi lo sappiamo anche grazie a specifiche Interrogazioni Parlamentari.
In questo àmbito, dal 2009 al 2013 sono state effettuate dall’INPS 854.192 verifiche straordinarie, con la revoca di 67.225 provvidenze, per mancata conferma dei requisiti sanitari o assenza a visita medico legale, il che corrisponde al 7,9% delle verifiche, al lordo di quanto sarebbe comunque avvenuto per via ordinaria (l’INPS ha incluso nelle verifiche persone per le quali comunque era prevista una revisione).
E quanto stima di avere ricavato l’INPS da questa gigantesca operazione di controllo? Lo dice la risposta all’interrogazione: 352,7 milioni di euro. Lordi, molto lordi. Infatti, per affrontare quella straordinaria mole di lavoro, l’Istituto è dovuto ricorrere anche a medici esterni, con una spesa dichiarata, dal 2009 al 2012, di 101,2 milioni di euro.
Il risparmio è quindi di 251,4 milioni, ancora lordi, ma che rappresentano l’1,51% della spesa annua per le provvidenze agli invalidi civili (16,6 miliardi secondo il Bilancio Sociale dell’INPS, un miliardo e mezzo in meno secondo l’ISTAT).
Da questo “bottino”, vanno poi detratte le spese per il personale interno (che l’INPS non dichiara): altri medici, dirigenti, softwaristi, impiegati amministrativi, spese di struttura, spese di spedizione di 850.000 comunicazioni. Stima prudenziale: altri 70 milioni. Il risparmio scende dunque a 181,4 milioni.
Ma non è finita. Come correttamente ricorda la risposta a un’Interrogazione in Commissione Affari Sociali della Camera, il risparmio va inteso al lordo del contenzioso. Tradotto: chi si vede revocare la pensione o l’indennità fa ricorso e nel 45% dei casi l’INPS soccombe in giudizio, con l’obbligo di restituire il “maltolto”, con gli interessi, pagandoci pure le spese legali. Molto prudenzialmente si può ritenere che l’Istituto – il quale, oltretutto, si serve in larga misura di legali esterni, come “lagnato” dalla Corte dei Conti – perda in questa operazione almeno altri 70 milioni.
Il risparmio reale scende pertanto a 111,4 milioni (non annui, ma complessivi dell’intera campagna), una cifra ridicola, che rappresenta lo 0,67% della spesa annuale per pensioni e indennità. Né si può dimenticare lo stigma diffuso di un paio di anni fa: «un invalido su quattro è falso»…
Come si vede, l’intero sistema – sia quello ordinario che quello straordinario – è estremamente costoso per lo Stato, per l’INPS e per le Regioni. Lo è anche per il cittadino, ovviamente. È un sistema in cui a buona ragione si può dire che qualcosa proprio non funzioni, sia in termini di efficacia che di efficienza.
Dagli ultimi dati ISTAT disponibili sull’invalidità civile, risulta che almeno il 58% degli invalidi civili ha più di 65 anni e che almeno il 41% ne ha più di 80. Ragioniamo su quest’ultima cifra. Ci stiamo riferendo – con tutta probabilità – a persone con affezioni tipiche della terza età, con esigenze e peculiarità specifiche, ma abbastanza agevolmente definibili. Ha senso che la loro valutazione rientri nel circuito ordinario? Sette medici in Commissione ASL, sei in Commissione INPS che giungono alla conclusione che esistono o meno i presupposti per la concessione dell’indennità di accompagnamento? Non avrebbe senso ipotizzare un percorso più rapido, meno costoso e legato ai servizi territoriali?
Ricordiamo anche che l’accertamento dell’invalidità poco conta per l’accesso ai servizi, ad esempio, residenziali. Nella quasi totalità delle Regioni, infatti, la valutazione della non autosufficienza viene poi affidata alle Unità di Valutazione Multidisciplinare e quindi, ancora una volta, con un raddoppio dei costi. E stiamo parlando almeno del 40% delle visite di invalidità…
Il problema delle moltiplicazioni dei momenti valutativi si riscontra poi in modo ancora più evidente nell’àmbito del diritto allo studio. Infatti, per la definizione di Diagnosi Funzionali e Profili Dinamico Funzionali, il precedente accertamento di invalidità è del tutto inutilizzabile.
In conclusione, se valutiamo il sistema nel senso dell’efficacia e dell’efficienza – prima ancora che della scientificità o dei diritti umani – ne traiamo delle conclusioni davvero desolanti. Qual è infatti il “prodotto” alla fine del percorso attuale di accertamento?
1. Una percentualizzazione basata sull’invalidità generica rispetto a una mansione lavorativa generica.
2. La constatazione di un’impossibilità a deambulare in modo autonomo o senza l’aiuto di un accompagnatore.
3. La constatazione (generica) di un’impossibilità a svolgere autonomamente non ben definiti atti quotidiani della vita.
4. La necessità di assistenza permanente continuativa e globale.
5. Di recente anche la presenza di requisiti per l’accesso a benefìci fiscali o per la mobilità.
Tutto ciò, in sostanza, nulla descrive in funzione della costruzione di servizi personalizzati, di piani educativi, di progetti individuali, cioè in funzione delle reali esigenze, aspettative e potenzialità dei singoli e della descrizione del contesto.
Ridisegnare il sistema ponendo al centro i diritti sociali e umani può rappresentare l’occasione di un’intelligente spending review [“taglio delle spese”, N.d.R.], oltreché un lungimirante investimento sulle persone e sulla loro reale inclusione.
È possibile già oggi, un pezzo per volta, ma con decisione. Agendo anche in piccolo, ma pensando in grande.