L’inclusione (e l’esclusione) è un affare di tutti

di Giorgia Zavalloni*
«Quanto possa essere devastante - scrive Giorgia Zavalloni – per un bambino con disabilità e la sua famiglia calpestarne le necessità è facilmente intuibile. Del tutto ignorati, o quasi, sono invece gli effetti diseducativi prodotti sullo sviluppo dei compagni di quel bambino con disabilità. Un fatto riguardante un genitore mi ha reso lucidamente consapevole di questo aspetto, che avevo sotto gli occhi da anni, eppure non avevo ancora colto»

Bimbo alla lavagna con aria corrucciataQuanto può essere devastante l’effetto diseducativo prodotto dai docenti che calpestano le necessità di un bambino con disabilità? Quanto possa esserlo per il bambino con disabilità e per la sua famiglia è facilmente intuibile. Da anni lo denunciamo, puntualizzando gli elementi e le responsabilità dello stato attuale dell’inclusione scolastica, suggerendo cambiamenti necessari, per altro indicati nell’ottima normativa che il nostro Paese si è data. Del tutto ignorati, o quasi, sono invece gli effetti prodotti sullo sviluppo dei compagni dei bambini con disabilità.

Vado per ordine, perché dall’episodio che vorrei brevemente raccontare consegue l’assunzione di un’ottica dell’inclusione sociale che non è più solo quella specifica delle associazioni di famiglie di persone con disabilità.
Nella diagnosi di Paolo, c’è una casella barrata accanto alla voce Gravità, relativa alla sua disabilità. I genitori si sono dovuti ben presto attrezzare di tutto ciò che serviva a garantirgli pari opportunità: conoscere le normative, sapere a chi rivolgersi e cosa chiedere, gestire la complessa regìa tra i tanti medici che si occupano di lui, dialogare ogni anno con il Dirigente Scolastico e con gli insegnanti, da quando ha iniziato a interpretare il ruolo sociale di “alunno h”.
Quest’ultimo aspetto ha condotto i genitori di Paolo a bussare allo Sportello per l’Inclusione Scolastica della nostra Associazione [ANFFAS Riviera del Brenta, N.d.R.] e a farsi Soci, in seguito a un episodio di rara e inaudita gravità.
Una docente della classe di Paolo (prima media), dopo l’ennesimo colloquio chiesto dal papà per indicare – pacatamente e rispettosamente – il coinvolgimento anche del proprio figlio nello sviluppo di un programma di lavoro di quella disciplina, una mattina si è rivolta allo stesso Paolo, di fronte ai compagni, dicendogli: «Tuo padre pensa che tu sia un genio… invece sei solo un povero handicappato».
Alla sera i genitori di Paolo, ancora ignari della vicenda, hanno ricevuto la telefonata di una mamma: diceva che il proprio figlio, compagno di classe di Paolo anche alla scuola primaria, le aveva raccontato quanto accaduto, scoppiando in lacrime.

Eppure esistono metodologie didattiche inclusive, che potrebbero coinvolgere e valorizzare i processi di apprendimento sia di Paolo che dei compagni. Quella docente – e tanti altri, purtroppo, come lei – anziché attrezzarsi a modificare la propria didattica, per rispondere professionalmente ai bisogni di quella classe, individua nel bambino con disabilità “il problema”, che mette in crisi il proprio “metodo di lavoro”, e contro di lui agisce comportamenti di aggressività, di palese e inaccettabile discriminazione.
Le attenzioni, i comportamenti di cura, l’affettività nei confronti degli allievi sono segnali di profondo rispetto della persona e di accoglienza. In una scuola inclusiva gli adulti fanno propri questi comportamenti e, in modo esemplare, li agiscono, creando una base fondamentale per il clima di classe, di apprendimento, di relazione.
In una classe inclusiva, la presenza di Paolo rappresenta per i compagni uno stimolo a interrogarsi su se stessi, a condividere domande di carattere etico-filosofico sulla persona, a sviluppare se stessi nel rispetto degli altri, divenendo buoni amici, giocatori leali, cittadini responsabili.
Al contrario, una classe che esclude getta al di fuori di sé Paolo e altri allievi “difficili”: gli adulti eludono, soffocano ogni domanda che possa lasciare traccia di disagio, rendendone impossibile l’elaborazione. Nel clima di classe permea la paura e il disprezzo per la diversità e i comportamenti discriminatori, vessatori (bullismo), aggressivi non riescono ad essere arginati.
In una classe che esclude, il messaggio adulto dice che il pieno rispetto della dignità della persona e il riconoscimento dei diritti inviolabili della persona sono suscettibili di essere “sospesi”, laddove vi sia una disabilità o una “differenza”. Gli adolescenti vengono abbandonati a loro stessi nell’interrogarsi, con angoscia, sulle proprie differenze.

Ecco perché la questione dell’inclusione scolastica non è solo affare dei genitori di Paolo (o delle Associazioni delle famiglie di persone con disabilità), ma riguarda, eccome, tutte le famiglie.
Occupiamocene insieme. Chiediamo ai Comitati Genitori delle scuole di ogni ordine e grado e alle Associazioni dei Genitori di vigilare affinché le scuole siano effettivamente inclusive, offrendo ai compagni dei bambini/ragazzi con disabilità l’opportunità di un pieno sviluppo della persona*.

*Dario Ianes, L’evoluzione dell’insegnante di sostegno. Verso una didattica inclusiva, Trento, Erickson, 2014, p. 5: «Una finalità “parallela” dell’integrazione scolastica, riferita molto frequentemente dagli insegnanti, è lo sviluppo personale di tutti gli alunni della classe, che crescono sotto vari punti di vista: aumentano le loro abilità relazionali di aiuto e comunicative, la loro empatia e le capacità di comprendere e gestire i propri stati d’animo, la loro autostima, le loro competenze metacognitive e di “insegnamento”, le loro conoscenze biologiche, antropologiche e sociali sulle differenze umane».

Sportello Inclusione Scolastica dell’ANFFAS Riviera del Brenta (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale), componente del Gruppo di Lavoro Regionale per l’Inclusione Scolastica e Sociale della FISH Veneto (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).

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