Mi guarda un po’ seccata. Non capisce perché le sue amiche e conoscenti, quando vanno a trovarla, non si offrano di darle una mano, ad esempio, a stendere il bucato. La sua disabilità le impedisce di alzare le braccia e dunque a lei questa mansione è preclusa. Ma la verità è che, per prevenire eventuali atteggiamenti pietistici, all’esterno si è sempre mostrata forte e determinata. Non ha proprio mentito, in effetti ha una forza di volontà notevole, e una risolutezza nell’inseguire gli obiettivi che le interessano che, prima o poi, in qualche modo, riesce sempre a raggiungerli. Il problema è, casomai, che lei non è solo coraggio e determinazione. La patologia che la rende disabile comporta la perdita progressiva della forza di diversi muscoli volontari (in genere quelli delle gambe, delle braccia, e quelli più vicini al tronco), per cui è normale che in molte attività non sia autosufficiente, o che nel compierle si affatichi molto di più di chi non ha una disabilità. Solo che, avendo scelto di non dare rilevanza, neppure con le amiche e conoscenti, a questo aspetto di sé, accade che queste abbiano finito per non coglierlo. Nessuna si offre di darle una mano, perché tutte confidano sul fatto che lei si sia saputa organizzare nella gestione delle attività domestiche e che, pertanto, non abbia bisogno d’aiuto. Potrebbe chiederlo, l’aiuto, ma per farlo dovrebbe mostrare la sua vulnerabilità, e l’immagine di donna forte – così faticosamente costruita – ne uscirebbe scalfita. Non ha ancora compreso che mostrarsi vulnerabili non genera necessariamente pietà, potrebbe anche suscitare solidarietà. E se poi suscitasse pietà, forse sarebbe il caso di cambiare il proprio giro di amicizie e conoscenze, e di iniziare a cercare persone che la accettino nella sua interezza.
Mentire sulla disabilità, non mostrarla mai per intero, nascondere o sminuire il dolore e la fatica che comunque ci sono, è ancora – anche nell’epoca della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità – un atteggiamento alquanto diffuso. Non è nemmeno necessario essere disabili per sentirsi attratti da questa strategia.
Davanti a pregiudizi fortemente negativi – quelli che, per intenderci, associano disabilità a inferiorità e dolore – sarebbe fin troppo facile controbattere “sfoderando” Helen Keller, Stephen Hawking, Giuseppe Garibaldi, Vincent van Gogh o Ludwig van Beethoven, solo per citare alcune tra le “personalità disabili” più famose. Ma a farlo, poi, si rischia che le persone comuni si attendano genialità da tutte le persone con disabilità, finendo, inevitabilmente, col rimanerne deluse, visto che la maggioranza delle persone con disabilità conduce una vita dignitosa, ma non ha proprio niente di straordinario. E perché dovrebbe?
Nel blog AnimALiena un post descrive con molta onestà la complessità del rapporto col proprio corpo quando si ha una malattia cronica. Tra le altre cose, vi si legge: «La mente diventa la tua peggiore nemica: perché di fronte ad un male terribile ma acuto esiste sempre la speranza della guarigione ad iniettarti la forza di lottare, mentre nelle patologie croniche la consapevolezza che non riavrai mai il tuo “prima”, unita all’angoscia per il deterioramento inesorabile che ti aspetta nel futuro e alla stanchezza della condizione presente possono renderti cronicamente depressa e disperata. Eppure in qualche modo devi funzionare. Sei obbligata a funzionare, anche se il corpo – e, di conseguenza, la mente – si rifiuta di collaborare. Devi performare la normalità: se puoi, e finché puoi, nascondi la tua condizione. Il che si rivela, al tempo stesso, un bene ed un male: perché se da un lato ti evita pietismi e sguardi imbarazzati, dall’altro fa sì che le persone abbiano un certo tipo di aspettative da parte tua» (Vivere in un corpo malato – Riflessioni sull’abilismo, in AnimALiena, 4 settembre 2016, grassetti nostri nella citazione testuale).
Nascondersi finché si può… nei tempi di internet e delle identità virtuali non è mai stato così facile. E non è detto che sia necessariamente “sbagliato”, se l’intento è quello di aggirare la diffidenza iniziale, e rivelarsi “interamente” in un secondo momento. Qualche volta ha funzionato. Se funziona, perché no?
Il tema si ripropone in tutti gli àmbiti della vita. Osserva Andrea Pancaldi parlando di sport in «Superando.it»: «La parola d’ordine comune dei partecipanti alle imminenti Paralimpiadi di Rio de Janeiro è: siamo innanzitutto atleti. E tuttavia non stracciamoci le vesti sui blog e sui profili Facebook e non teniamo sotto i riflettori solo quell’”atleti”, come vergognandoci o paurosi di tenere dentro al discorso anche la parola “disabilità”. Ciò che infatti di stereotipante e di limitante esiste nell’uso della parola disabili non lo si sconfigge coprendolo con un velo, ma avendo il coraggio di passarci e ripassarci attraverso, facendosi carico della quotidiana fatica di questo» (Andrea Pancaldi, Atleti disabili? Disabili atleti? O altro ancora?, in «Superando.it», 5 settembre 2016, ultimo aggiornamento: 6 settembre 2016).
C’è una normalità anche nella disabilità, e raccontarla senza drammatizzare le difficoltà, ma anche senza sminuirle, è una delle cose più difficili in natura. Tuttavia, per arrivare ad essere accolte ed accettate per quello che sono realmente, è necessario che le persone con disabilità accettino la sfida di essere sincere. Se non lo faranno, non potranno lamentarsi delle aspettative inadeguate e dei comportamenti incongrui che gli altri avranno nei loro confronti.
Proporsi in modo assertivo («Io sono così!»), essere autentici, sono ancora – e non solo per le persone con disabilità – dei bellissimi biglietti da visita.
Sociologa, componente del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). La presente riflessione è già apparsa nel sito dello stesso Gruppo Donne UILDM, con il titolo “La bugia non è la via” e viene qui ripresa, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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