“Non aggiungere disagi a chi già vive situazioni molto complesse”, avevamo titolato il nostro testo ove raccoglievamo la denuncia dei gravi problemi verificatisi in fase di attuazione del Fondo per la Non Autosufficienza Regionale, causati da una Delibera della Giunta Regionale della Lombardia (n. 1253 del 12 febbraio 2019).
Oggi la testimonianza diretta di Ida Sala del Comitato Lombardo per la Vita indipendente delle Persone con Disabilità ci sembra più efficace di tante altre disquisizioni, nel rendere conto di quei disagi.
Si è finalmente concluso il mio calvario legato alla presentazione della Domanda di valutazione multidimensionale a favore di persone con gravissima disabilità e in condizioni di non autosufficienza per ammissibilità alla misura B1 (FNA 2018) ai sensi della DGR 1253 del 12/02/2019.
Per me sono stati dieci lunghi giorni costellati di telefonate per evitare continui andirivieni tra casa e Sportello Unico per il Welfare (SUW), sito a Como nel vecchio Ospedale Sant’Anna e aperto tre giorni alternati alla settimana.
Andirivieni che, comunque, non sono riuscita a ridurre a meno di cinque. Niente male, se si pensa che la Misura B1 è destinata ai cosiddetti “gravissimi”, cioè a persone bisognose di assistenza 24 ore su 24, assistenza di cui, in questo caso, i nostri Amministratori hanno ritenuto che quelle persone potessero fare a meno, visto che i cosiddetti caregiver – familiari o stipendiati che fossero – dovevano correre dietro alle scartoffie che ci venivano richieste, e che non andavano mai bene.
Al primo appuntamento non hanno accettato la domanda perché non avevo indicato il nome del caregiver familiare. Avevo infatti presentato un’autocertificazione in cui dichiaravo di non disporne e di non volerlo, visto che autogestisco dal 2004 (per la verità dal 1999, ma vivevo in un contesto comunitario) l’avvicendarsi dei miei assistenti personali in funzione di una vita indipendente.
Due giorni dopo sono andata personalmente per convincerli dell’assurdità della cosa, ma non c’è stata ragione: quei “poveri” assistenti sociali e medici, ridotti al ruolo di inconsapevoli, incasinati ma diligenti “kapò”, non si sono accontentati di avvisarmi che avevano precise istruzioni di non accogliere la domanda in assenza di quell’indicazione, ma, quando hanno visto che non bastava indorarmi la pillola mostrandomi che in fondo si trattava solo di una formalità, si sono adoperati per farmi capire che io non posso autogestirmi, visto che sono “una gravissima” e, come tale, bisognosa di assistenza 24 ore su 24.
Non sono riuscita a spiegare loro che sono in grado di intendere e di volere, cosa che mi sembrava umiliante specificare, considerata l’evidenza! Così i miei quindici anni di autogestione per quei signori è come se non fossero mai esistiti, visto che non sono specificati nelle loro scartoffie; e non esisto come interlocutore, altrimenti perché specificare il nome della caregiver, visto che sono io a firmare la domanda?
A questo punto mi chiedo cosa intendono per vita indipendente gli Amministratori Regionali che l’hanno prevista nella citata Delibera n. 1253.
Due giorni dopo, ancora fiduciosa nell’ipotesi che davvero potesse trattarsi di una poco ragionata formalità e sperando in un briciolo di senso dell’umorismo, magari anche di complicità, visto che un giorno potrebbe toccare anche a loro o a un loro caro di finire nella mia situazione, ho indicato come caregiver familiare mio fratello (disabile come me, che abita nell’appartamento adiacente e che mi fa tanti favori, per esempio è più bravo di me a compilare i moduli, a fare i conti, a insegnare a cucinare ricette italiane a badanti stranieri eccetera eccetera).
«Ci state prendendo in giro?», è stata la risposta mentre rigettavano la domanda.
Rassegnata, visto che senza quei soldi non posso pagare i miei assistenti, ho indicato come caregiver la mia assistente personale (badante), quella a cui ho insegnato come prendersi cura del mio corpo, a usare i miei ausili, a occuparsi della mia igiene, a tenere in ordine i miei documenti, a dare il nome giusto agli oggetti di ogni giorno, eccetera.
Quale sia il senso ancora non lo capisco, tanto più che avevo allegato il contratto stipulato con l’assistente e i contributi pagati, come mi era stato richiesto.
Anche su questo aspetto, per altro, avrei da ridire, perché non spetta all’ATS né all’ASST [rispettivamente Azienda per la Tutela della Salute e Azienda Socio Sanitaria Territoriale, N.d.R.] controllare se il contratto è effettivo e la sua correttezza: casomai compete all’Ispettorato del lavoro, all’INPS o al sindacato, se il lavoratore o la lavoratrice vi fanno ricorso. Ma certe battaglie non si possono fare da soli.
Il punto è che non mi riesce di capire se ai nostri Amministratori Regionali dà fastidio il concetto di autodeterminazione, per cui non riescono a sopportare che qualcuno possa avere una volontà autonoma e che ci sia un modo per esercitarla anche se in gravi condizioni fisiche, oppure se tutto si fonda sulla mentalità dei medici per cui, se sei curato con soldi della Sanità, devi adattarti agli standard da loro prefissati per guadagnarti il titolo di gravissimo.
Per assurdo, anche le soluzioni tecnologiche più avanzate dovrei considerarle tabù, per non correre il rischio di sembrare “troppo poco gravissima”.
Faccio un esempio: fino a sei anni fa sedevo su una carrozzina elettrica che non riuscivo più a guidare perché le mie forze si erano affievolite e non ero più in grado di mantenere a lungo la postura. È bastato cambiare carrozzina e, grazie a un comando infinitamente più sensibile che guido solo con il pollice, posso percorrere 2 o 3 chilometri in tempi accettabili; in estate perfino da sola. E grazie alla possibilità di reclinare o basculare sedile e schienale, sempre servendomi dello stesso sensibilissimo comando, posso permettermi di stare in carrozzina fino a tardi, invece che andare a letto alle 21 come accadeva prima.
Questo significa che non sono più gravissima e quindi guai a me se oso avventurarmi da sola nel discount accanto a casa?
Altro esempio che mi è stato raccontato: un signore totalmente non autosufficiente, ricoverato in una residenza, nel momento in cui quest’ultima è diventata sanitaria è stato costretto a mangiare pappine tutti i giorni, anche se deglutisce benissimo, perché quello è il “menù” stabilito per tutti coloro che vivono in quel “reparto”.
Che fine hanno fatto in questi casi i progetti personalizzati? Che fine ha fatto la nostra Costituzione che parla di pari dignità sociale, di libertà e uguaglianza, di solidarietà, quando il “kapò” di turno risponde al cittadino che si presenta allo sportello: «Questa è la legge!»? «Veramente è una Delibera», ho risposto, come se potesse cambiare qualcosa…
Tento alcune conclusioni alla rinfusa, ma ci sarebbe da scrivere un trattato più che un articolo: l’insistenza sulla figura del caregiver familiare svela l’intento della Delibera, che è palesemente quello di contenere il numero degli aventi diritto, stringendo il cerchio intorno alla famiglia, per scaricare su di essa ulteriore peso.
La ristrettezza finanziaria è la ragione ufficiale di questo contenimento, ma ormai lo sanno anche i bambini che i soldi ci sono, che basta spenderli meglio, per le necessità dei cittadini e non di chi vuole arricchirsi sulla propria pelle.
Quella Delibera – lungi dal voler sollevare i cittadini con gravissime disabilità dalla loro pesante situazione – aggiunge burocrazia che a sua volta crea “sadismo istituzionale”, perché sottrae agli operatori sanitari e sociali la possibilità di interagire con l’utenza con spirito di servizio e li costringe, invece, a ostentare l’arroganza del potere.
Concludo quindi con la speranza che almeno questa volta, dopo quasi vent’anni di appelli e manifestazioni, la nostra Amministrazione Regionale si decida una buona volta ad accogliere le nostre richieste di una normativa apposita che preveda l’assistenza personale autogestita con finanziamenti ad hoc, per rendere concreto ai cittadini con disabilità che lo desiderano il diritto una vita indipendente.