«Lo dirà la Magistratura, lo dirà magari una Commissione di Indagine Parlamentare, che invochiamo, lo diranno opportune indagini quali siano le responsabilità individuali nella tragedia che si è consumata nelle RSA [Residenze Sanitarie Assistenziali, N.d.R.] e nelle strutture italiane che accolgono persone con disabilità e non autosufficienti. Di certo è ora di mettere in discussione un intero sistema di strutture segreganti, di “luoghi speciali” o spacciati per tali in funzione di pseudo-specialità riabilitative perché indirizzati a questa o a quella condizione patologica»: non usa mezzi termini la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), nel commentare quella che nelle strutture residenziali si sta profilando come una vera e propria strage annunciata, ciò che si desume chiaramente, ad esempio, dai report del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
«Sono dati che leggiamo con orrore – commentano dalla FISH – senza tuttavia stupirci che questa vera ecatombe si sia consumata proprio in quelle strutture che da anni segnaliamo come segreganti, come umilianti della dignità personale, come espressione lontanissima a qualsiasi logica di abitare sociale, di inclusione, di prossimità e di trasparenza rispetto al territorio. Da anni, infatti, ripetiamo che lo Stato e le Istituzioni territoriali dovrebbero compiere ogni sforzo mirato alla deistituzionalizzazione delle persone con disabilità che vivono in strutture segreganti, intervenendo sia nella direzione di garantire adeguate dimissioni da quei luoghi di detenzione, sia nel divieto alla realizzazione di nuove strutture che riproducano situazioni segreganti, vietandone l’accreditamento istituzionale e, conseguentemente, qualsivoglia finanziamento diretto o indiretto».
Nel nostro Paese, va ricordato, sono circa 300.000 le persone con disabilità o non autosufficienti che vivono in strutture potenzialmente segreganti. Nelle prime fasi dell’emergenza legata al coronavirus, tali strutture sono state blindate verso l’esterno con l’intento di proteggerle dal contagio, cosicché è accaduto che molte realtà già non permeabili al territorio e alle famiglie si siano isolate anche da controlli, attenzioni e “occhi indiscreti”: «Purtroppo – sottolineano dalla FISH – il risultato è all’attenzione di tutti».
«Ma non sono solo le lacune o gli errori di profilassi ad avere causato il disastro – proseguono dalla Federazione -, bensì la stessa logica di coabitazione, di aggregazione forzata, che troppo spesso contraddistingue queste strutture e questi modelli. E le eccezioni, le buone prassi che non mancano rendono ancora più grave tutto ciò che non funziona».
Già da anni, ormai, il contrasto alla segregazione, i sostegni all’abitare autonomo e adulto, i supporti e i servizi all’abitare dignitoso, quando non sia proprio più possibile restare a casa propria, sono al centro delle rivendicazioni della FISH, come abbiamo riferito molte volte. I vari appelli e le istanze, però, sono rimasti inascoltati, pur essendo basati sui princìpi della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, secondo cui ognuno deve poter vivere dove, come e con chi gli pare. Basti pensare solamente alla Conferenza di Consenso promossa nel mese di giugno del 2017, con il titolo Disabilità: riconoscere la segregazione, iniziativa della FISH che aveva potuto contare su un’ampia condivisione, producendo anche uno specifico Poster contro la segregazione delle persone con disabilità nei servizi per l’abitare. Il tutto era stato l’esito del progetto di ricerca denominato Superare le resistenze, partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri delle persone con disabilità, promosso sempre dalla Federazione, e i cui risultati avevamo anche noi ampiamente sintetizzati.
«Sono concetti e intenti – sottolineano ancora dalla FISH – che abbiamo ripetuto inutilmente in questi anni, facendo sì che venissero anche trasfusi nel Secondo Programma di Azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, reso pubblico alla fine del 2017, atto, però, che è stato “dimenticato” nel cassetto da ben tre Governi. Al contrario, in questi anni hanno continuato a fiorire strutture sempre più grandi, sempre meno rispondenti a criteri di inclusione sociale, a nascere e ad essere finanziate strutture residenziali indicate come eccellenze a decine di chilometri dall’abitato più vicino. Vecchie strutture e sigle antiche, con stucco e cartongesso hanno elevato “solidali” padiglioni o condomini per il co-housing [“residenza condivisa”, N.d.R.] in cui concentrare decine di unità abitative di persone con disabilità, godendo magari di nuove linee di finanziamento nate con tutt’altri intenti. Con queste premesse, con queste lobbies, con il prevalere di questi modelli, le persone anziane non autosufficienti e le persone con disabilità continueranno a vivere – e a morire – nel loro isolamento e nella loro segregazione, quando non nelle molestie, abusi, eccessi di sedazione, deprivazione… cioè proprio in quel brodo di coltura in cui è maturata la tragedia di questi giorni».
«Le nostre istanze – concludono dalla FISH – sono secche e chiare: subito una commissione di indagine parlamentare e con il coinvolgimento del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale; revisione dell’intero sistema di accreditamento istituzionale delle strutture residenziali con l’adozione delle norme UNI 11010 sui requisiti dei Servizi per l’abitare e servizi per l’inclusione sociale delle persone con disabilità; confronto con le Regioni per la definizione di un piano per l’abitare sociale adulto e autonomo delle persone con disabilità, nello spirito del 19° articolo (Vita indipendente ed inclusione nella società) della Convenzione ONU. Tutto ciò è indispensabile, per far sì che questa tragedia non sia avvenuta invano, affinché quelle morti silenziose non siano state inutili». (S.B.)
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