Quando nasce un bambino o una bambina con disabilità avviene un vero e proprio terremoto nella coppia e nella famiglia. All’improvviso si devono ristabilire ruoli e posizioni rispetto alle famiglie di origine. Per i genitori, del resto, già la nascita del primo figlio rappresenta una vera e propria rivoluzione in termini di ruoli. Da figli diventano (anche) genitori e, da questo momento in poi, sono tenuti ad assumere l’autorevolezza e le responsabilità che il nuovo ruolo comporta. A volte capita che le famiglie d’origine interferiscano con le scelte dei neogenitori rispetto al neonato oppure può avvenire che un partner, ancora molto dipendente dalla propria famiglia d’origine, ricerchi eccessivamente la presenza e il sostegno dei genitori.
Nel caso di un bambino con disabilità, la famiglia si trova di fronte a nuove problematiche e per chi accetta la sfida, questo può rappresentare un motivo di soddisfazioni e di traguardi da condividere. Ma non è per tutti così; soprattutto all’inizio, infatti, alcuni genitori possono vivere questa situazione come un “lutto”. Tutti i loro sogni e progetti sulla vita “normale” vanno in pezzi e vi è la necessità di elaborare la nuova situazione dopo la diagnosi.
La psichiatra inglese Joan Bicknell aveva tentato di delineare le fasi attraverso le quali si arriva all’elaborazione del “lutto”/diagnosi: 1. fase di shock e dolore; 2. senso di colpa e rabbia; 3. accettazione della condizione ed elaborazione di un progetto di vita, tenendo conto che in presenza di un figlio con disabilità il lavoro di cura è molto più impegnativo e le emozioni possono essere confuse e contraddittorie.
In questo uragano di emozioni e reazioni, non è raro che il senso di colpa sia qualcosa di insito ed atavico in molte famiglie. Esso può essere spesso legato a comportamenti o fatti che non si possono narrare e che non tutti hanno metabolizzato. Ciò è comune a tante famiglie e in alcuni casi non è connesso alla presenza di un familiare con disabilità. Va però considerato che la disabilità può rappresentare un ottimo elemento per sentirsi sbagliati: non siamo o non abbiamo il figlio “normale” che tutti desiderano.
In tale discorso, poi, non è saggio sottovalutare l’aspetto dell’accudimento. Nel corso del tempo, infatti, cambiano i ruoli tra chi accudisce e chi viene accudito. In una dinamica “normale” il figlio si prende cura del genitore che invecchia, ma possono esserci altri casi dove il figlio adulto e non completamente autosufficiente non riesce a farsi carico delle sofferenze, anche psicologiche, del genitore, perché si sente la “causa” dei mali della famiglia. Ammesso che non si siano interrotti i rapporti tra genitori e figli.
Le urgenze delle varie età, specialmente nel periodo della formazione, mettono da parte i meccanismi familiari, in quanto prevale la necessità di far emergere il proprio io, confrontarsi con il mondo esterno e con i coetanei. Raggiungendo poi la maturità, bisogna fare i conti con le proprie radici. Ecco riemergere la Storia Familiare, con la sua potenza sia negli accadimenti positivi che in quelli negativi. E a fare maggiormente le spese di una storia familiare complessa sono i figli che creano la causa dei maggiori conflitti o si ritrovano catapultati in dinamiche già esistenti o che non hanno causato volontariamente e che sono fiammelle sulle quali, non si sa perché, soffia spesso il vento anziché cadere la pioggia.
Talvolta fra diverse generazioni si accumula un dolore sommerso che sfocia in rabbia, gelosie, sensi di colpa e d’inadeguatezza, facendo “scoppiare“ le famiglie. Soprattutto c’è un sentimento che può rendere tutti simili alle persone con disabilità – ma non uguali per dati oggettivi – ed è il senso di inadeguatezza. Quando il sentirsi in colpa nasce dall’inconscio, dalla confusione interiore che impedisce di discernere la verità dalle calunnie e i sentimenti dalla ragione, il senso di colpa e la rabbia possono essere i nostri peggiori nemici.
La complessità è una caratteristica imprescindibile e non eliminabile delle tematiche connesse alla disabilità in generale e alla comunicazione di essa in particolare. Dopo la diagnosi, le famiglie non possono semplicemente “fare un salto indietro” e tornare alla solita vecchia vita, ma devono fare “uno scatto in avanti”, per passare attraverso un territorio nuovo, per non sprofondare nella solitudine, nei sensi di colpa e nella rabbia che con il tempo o si superano o ci sovrastano. Sarebbe a tal proposito estremamente importante fornire a tutto il nucleo familiare un appropriato supporto psicologico che lo aiutasse ad affrontare e a ridurre i vissuti negativi sperimentati: la depressione, la frustrazione e, talvolta, la vergogna.
Gli obiettivi fondamentali includono i seguenti punti: 1. Ridurre l’impatto stressante dell’esperienza della disabilità sulla famiglia. 2. Far percepire i punti di forza e le potenzialità della situazione e di ogni membro della famiglia, per poi focalizzarsi su aspettative realistiche. 3. Offrire dei collegamenti con i servizi territoriali deputati al sostegno e all’integrazione delle funzioni e degli sforzi dell’assistenza familiare.
Quando la disabilità colpisce un membro di una famiglia, sarebbe auspicabile occuparsi per tempo dell’intero sistema familiare, per evitare conseguenze negative che creano talora un vero e proprio “effetto domino” difficile da gestire e disinnescare. Va anche detto che non bisognerebbe avere paura delle reazioni negative e di chiedere aiuto per tempo, prima che sia troppo tardi, per affrontare con energia i vari problemi di tutta la famiglia. Purtroppo non sempre si è disposti a lavorare su noi stessi o chiedere aiuto. Talvolta è più facile chiudersi nel proprio dolore e rancore per poi scaricarlo sugli altri. La verità sulle cause della disabilità e altri accadimenti traumatici andrebbero spiegati una volta sola quando il bambino non è molto grande, di modo che sia più semplice farsene una ragione.
Un caro amico con una lieve disabilità motoria mi ha raccontato che la sua psicologa le ha spiegato che i suoi traguardi e le ambizioni dell’età adulta non erano condivisi dai genitori, a causa dal fatto che quando era piccolo l’ambizione più grande era che lui camminasse e studiasse; assolte queste situazioni (che per noi rappresentano un vissuto di sacrifici notevoli), le ambizioni dei genitori sono cessate. Nell’età adulta, sia lui che io abbiamo fatto delle scelte che ci hanno portato a vivere ogni giorno tanti traguardi; in questo modo i sacrifici fatti cominciano ad avere un senso.
Sarebbe bello potersi staccare dalla narrazione della mia nascita, che ha causato traumi non indifferenti, per essere tutti uniti e concentrarsi sui lati positivi di tanti traguardi e conquiste, ma forse questo finale mi sembra sin troppo fiabesco!
Pedagogista, donna con disabilità, curatrice del portale “Piccolo Genio.it” e autrice dei libri “Nata Viva” (prima edizione 2011, Società Editrice Dante Alighieri) e “RaccontAbili. Domande e risposte sulla disabilità” (Erickson, 2021).
Articoli Correlati
- L'integrazione scolastica oggi "Una scuola, tante disabilità: dall'inserimento all'integrazione scolastica degli alunni con disabilità". Questo il titolo dell'approfondita analisi prodotta da Filippo Furioso - docente e giudice onorario del Tribunale dei Minorenni piemontese…
- Il Disegno di Legge Zan e la disabilità: opinioni a confronto Riceviamo un testo dal sito «Progetto Autismo», a firma di Monica Boccardi e Paolo Cilia, che si riferisce, con toni critici, a un contributo da noi pubblicato, contenente due opinioni…
- Sordocecità, la rivoluzione inclusiva delle donne Julia Brace, Laura Bridgman, Helen Keller, Sabina Santilli. E poi Anne Sullivan. Le prime quattro erano donne sordocieche, la quinta era “soltanto” quasi completamente cieca, ma non si può parlare…