Il problema dell’assistenza alle persone con disabilità è da sempre gravissimo e tuttora irrisolto, continuando quasi sempre a gravare sui familiari. In tal senso sono illuminanti i numerosi articoli pubblicati su queste pagine da Giorgio Genta che, pur lavorando di giorno, trascorre la notte a vegliare la figlia che necessita di un’apparecchiatura elettrica per respirare, con il rischio che si stacchi il cavo di respirazione o venga meno la corrente elettrica. Genta, con il suo notorio “auto-umorismo”, si definisce spesso come “mulo da soma”, per dover da sempre portare questo peso che egli sopporta con grande gioia, ma, ovviamente, con immensa fatica.
La normativa ha dato talune risposte consistenti nel rendere meno difficile la conciliazione tra lavoro salariato esterno dei familiari e lavoro di cura a casa. Infatti da tempo i familiari prossimi fruiscono di tre giorni di permessi mensili retribuiti e di due annui di congedi retribuiti durante tutto l’arco della vita lavorativa. Però ciò non è sufficiente a risolvere tutti i problemi organizzativi.
Così da più parti è stata avanzata la proposta di un salario per i familiari che, rinunciando al lavoro retribuito esterno, rimangano a casa ad assistere ventiquattr’ore su ventiquattro i propri cari con disabilità. La FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e le Associazioni ad essa aderenti sono contrarie, ed io con loro, a questa soluzione apparentemente ragionevole. Infatti, come ha dimostrato ripetutamente sempre su queste pagine Simona Lancioni, tale soluzione comporterebbe l’esclusione dal mondo del lavoro delle donne, mamme o sorelle o figlie, che sono quelle che fanno da caregiver nella stragrande maggioranza dei casi.
Giustamente Lancioni distingue il lavoro di cura dall’assistenza affettiva. Il primo dev’essere compito di personale esperto retribuito, diverso dai familiari, la seconda deve caratterizzare il clima psicologico che solo i familiari possono realizzare. Il problema quindi si sposta sulla necessità di norme che assicurino il lavoro di cura fornito dagli Enti Locali o da Enti convenzionati con essi. E qui purtroppo si notano le carenze del nostro sistema di welfare, perché non sempre e non tutti gli Enti Locali sono organizzativamente attrezzati per fornire questo personale preparato e che garantisca continuità assistenziale, aspetto, questo, assai importante per l’equilibrio psicologico delle persone con disabilità, specie intellettive o con problemi dello sviluppo.
Purtroppo nel nostro Paese manca ancora la definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza e quindi la disparità di trattamento è assai presente sul nostro territorio. Occorrerà quindi che il prossimo Governo affronti seriamente questo problema, anche perché la proiezione dei dati sul crescente numero di persone con disabilità e sull’invecchiamento della popolazione danno per certo che nei prossimi anni questi problemi diverranno drammatici, se non affrontati immediatamente.
Né si dica che la soluzione è data dai centri residenziali, sia per le persone con disabilità che per quelle anziane con o senza disabilità. Infatti, è notoria la disumanizzazione di strutture che ospitano decine o addirittura centinaia di ospiti e la pandemia ha purtroppo evidenziato come questi luoghi sovraffollati siano stati fonte di contagio e di morte. E in ogni caso i centri sovraffollati sono causa di perdita della qualità di vita delle persone fragili, che hanno bisogno di una vita affettivamente ricca.
Tutto il mondo della disabilità ormai sostiene che, qualora per diversi motivi non sia possibile la vita in famiglia, la soluzione estrema sia quella di piccoli gruppi-appartamento o case famiglia con pochissimi ospiti, cinque o sei, i cui costi, ovviamente, sono decisamente superiori a quelli dei grandi centri che ripartiscono su parecchi ospiti le spese di gestione. Pure questo aspetto dev’essere preso urgentemente in considerazione, poiché i danni fatti dalla “ghettizzazione” in centri sovraffollati risultano ormai insostenibili secondo la cultura sociopolitica di oggi.
Per riuscire a sostenere le alte spese dovute alla permanenza in famiglia delle persone con disabilità, si avanza da più parti pure l’idea di progetti di “Dopo di Noi” finanziati da programmi assicurativi, e realizzati anche da persone con redditi molto bassi, cui debba provvedere, in parte, anche la finanza pubblica. Si pensa in tal senso alla gestione di tali fondi da parte dell’INPS.
Vi sono già esperienze di questo tipo e sarebbe opportuno uno studio sperimentale approfondito, se vogliamo evitare da un lato il rischio di scaricare sulle spalle dei familiari il peso dell’assistenza domiciliare o il ricorso all’istituzionalizzazione.
Infine, se comunque ci sono familiari che non possono o non intendono abbandonare il lavoro, e che pur di essere più vicini ai loro cari con disabilità, sono disposti o necessitati a chiedere il lavoro part-time, diviene indispensabile la costituzione di un fondo pubblico per l’erogazione di pensioni che in parte colmino il danno del dimezzamento dei salari e degli stipendi dei caregiver.