Dopo avere raccontato nei giorni scorsi la vicenda di Sara Bonanno, che ha intrapreso un contenzioso con la propria ASL di riferimento, per ottenere una maggiore continuità infermieristica e assistenziale per il figlio con grave disabilità di cui è caregiver e amministratrice di sostegno, e che di contro ha visto la stessa ASL attivare, senza informarla, una procedura per chiederne la sostituzione come amministratrice di sostegno, ben volentieri cediamo la parola al racconto della stessa protagonista della vicenda.
Simone è un ragazzo di 27 anni con una condizione sanitaria intensiva e complessa. Cosa significa? Che le sue condizioni non sono stabilizzate, ma, purtroppo, in progressivo e spesso improvviso peggioramento, e che sono ulteriormente rese complesse da una serie di gravissime disabilità.
I LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), e le stesse indicazioni regionali, ovviamente riportati in più punti nei contratti di accreditamento con le ditte private che forniscono il servizio sanitario di ADI (Assistenza Domiciliare Integrata), chiariscono, sulla base alle più moderne indicazioni sanitarie, che per curare persone in questa condizione è indispensabile una continuità assistenziale attraverso le medesime figure di riferimento. Tanto più se, ad operare a domicilio, non è un’équipe multidisciplinare, ma un infermiere esperto che dev’essere in grado di prendere decisioni emergenziali che salvano la vita.
Questa premessa è necessaria per far comprendere che, anche se la mia ASL di riferimento ha continuamente affermato che le mie richieste di rispetto della convenzione su questo punto sono «stramberie da caregiver», io non ho mai chiesto alle Istituzioni qualcosa che non fosse chiaramente previsto nella Legge e nei regolamenti che le stesse Istituzioni si sono date.
Invece, da circa due anni, l’assistenza a mio figlio è stata erogata unicamente con “infermieri itineranti”. Cosa intendo?
Infermieri che lavorano a Partita IVA con contratto a prestazione e che non sono nemmeno interessati ad una diversa contrattazione stabilizzata, perché il loro obiettivo lavorativo è un dignitoso contratto, meglio se pubblico, a tempo indeterminato. E hanno anche ragione: dei bravi professionisti meritano un’adeguata valorizzazione professionale ed economica.
Ecco, con questa considerazione ho appena fatto quello che la ASL mi ha rimproverato nella denuncia dove chiedeva la mia sostituzione come amministratrice di sostegno: mi sono “impicciata” di fatti che non mi riguardano. Ed invece no, caspita se mi riguardano e riguardano mio figlio Simone!
In un anno e mezzo ad assistere Simone sono transitati più di un centinaio di questi infermieri itineranti. Provate ad immaginare cosa può significare, per una persona che soffre di dolore cronico neurologico e neuropatico, che non vede, che è immobilizzata al letto con frequenti crisi respiratorie ed epilettiche scatenate da situazioni improvvise, essere manipolato da continue mani estranee di persone che il più delle volte nemmeno tentano una relazione con lui, e che compiono, su quel povero corpo martoriato, manovre invasive come aspirazioni, svuotamenti, cateterismo ecc…
Dopo un’interlocuzione inizialmente collaborativa, poi sempre più conflittuale, dove mi sono sempre sentita dire dalla ASL che non poteva intervenire presso le ditte private che non rispettavano le convenzioni stipulate (e sottolineo questo punto, perché farà saltare sulla sedia chiunque conosca un pochino il Decreto Legislativo 502/92 che ha trasformato le USL in Aziende con poteri straordinari di controllo, vigilanza e intervento diretto!), dalla ASL stessa mi è stato detto e ripetuto che l’unico intervento di sua competenza era ratificare un cambio della ditta accreditata, continuando a non far nulla se anche l’altra ditta non avesse rispettato la convenzione.
Di fatto, mio figlio doveva vagare tra una ditta e l’altra, supplicando per avere un’assistenza umana e dignitosa. Cosa che per altro abbiamo anche fatto, e questo ha creato a Simone una devastante condizione di “reificazione”, tanto ben descritta da Basaglia e anche dettagliata dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) a proposito delle condizioni di abuso grave verso le persone con estreme fragilità sanitarie e di disabilità.
Alla fine ci siamo rivolti al Giudice, denunciando la ASL per negligenza e proponendo una soluzione adeguata alla dignità di Simone e al suo diritto di essere assistito a domicilio, come previsto dai LEA.
Il giudizio, iniziato a dicembre, è in dirittura d’arrivo… e, guarda caso, è proprio in questo frangente che la ASL ha deciso di chiedere la mia sostituzione con un amministratore di sostegno esterno, in modo da poter coattivamente istituzionalizzare Simone, strappandolo dal suo mondo, dalla sua casa con giardino, dai suoi affetti, dalle amicizie, dalle sue abitudini e persino dai suoi vizi, per rinchiuderlo in un luogo segregante (si parla tanto oggi delle condizioni dei detenuti al 41bis: invito seriamente a fare dei paragoni con le condizioni segreganti delle persone rinchiuse nelle RSA [Residenze Sanitarie Assistite, N.d.R.] o negli hospice perché hanno commesso “l’unico reato” di essere gravemente malate o disabili).
Ma del resto, nelle condizioni di Simone, un qualsiasi ricovero sarebbe stato una condanna a morte. Infatti, con tutta probabilità, non è in grado nemmeno di tollerare un trasporto: quando due anni fa abbiamo traslocato nella casa attuale, che dista dalla precedente meno di 5 minuti di autoambulanza, Simone è stato malissimo per due giorni e due notti.
Nei giorni scorsi, all’udienza di nomina del nuovo amministratore di sostegno, scoperta per puro caso pochissimi giorni prima, il bravissimo avvocato di mio figlio, ha chiesto al Giudice Tutelare come mai avesse predisposto questa nuova nomina. Quindi ha semplicemente fatto notare che perfino nella denuncia della ASL nei miei confronti i presunti addebiti erano da attribuirsi al mio ruolo di caregiver familiare, mentre invece era lampante che nel ruolo di amministratrice di sostegno, anche dalla narrazione della ASL, sono sempre stata ineccepibile. Quindi cosa avrebbe potuto fare di diverso o meglio un altro amministratore di sostegno?
A quel punto è stato evidente che l’unica cosa che un altro amministratore di sostegno avrebbe potuto fare di diverso sarebbe stata l’istituzionalizzazione forzata di Simone. L’unica cosa che, è vero, io non farò mai, perché so con certezza che non è nella volontà di mio figlio.
L’avvocato di Simone ha chiesto ed ottenuto una nuova udienza domiciliare fissata per metà marzo, data per la quale, probabilmente, si sarà espresso anche il Tribunale del ricorso che ho intentato contro la ASL e che dovrebbe blindare Simone nei suoi diritti di essere umano e di cittadino libero.
Ma io non voglio che questa situazione finisca qua. Io chiedo a tutti, semplici cittadini, media ed organi politici di fare qualcosa perché non succeda più a nessun altro quello che è appena successo a me e Simone.
La Legge sull’amministratore di sostegno [Legge 6/04, N.d.R.] io l’ho vista nascere quando lavoravo come assistente sociale proprio all’ASL, all’interno di un Centro di Salute Mentale e avevo a che fare spesso con interdizioni ed inabilitazioni. Questa Legge è apparsa sin da subito, a noi professionisti, come la risposta alle tantissime richieste di dignità e rispetto verso le persone in condizioni estreme di fragilità. Come ha potuto trasformarsi ed essere distorta in meno di vent’anni in un’arma intimidatoria e vessante per l’istituzionalizzazione forzata delle persone fragilissime come mio figlio? Com’è stato possibile?