Partiamo da un presupposto: l’accessibilità è un principio di sviluppo, sia nel mondo fisico che nel mondo digitale. Nel 2023 progettare soluzioni non accessibili significa discriminare con la possibilità di essere pure citati in giudizio da dipendenti (Decreto Legislativo 216/03) o da utenti (Legge 67/06). In alcuni casi, per soggetti con un fatturato superiore ai 500 milioni di euro nell’ultimo triennio, si rischia pure una sanzione amministrativa che può arrivare al 5% (cinque per cento) del fatturato, un punto in più delle tanto temute sanzioni per il GDPR [Garante della Privacy, N.d.R.].
Con questo presupposto, come diceva un personaggio TV anni fa, «la domanda sorge spontanea»: perché ancora oggi si sviluppano prodotti e servizi non accessibili? Me lo chiedo ogni giorno per il mio campo, l’ICT [Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, N.d.R.], e in questo approfondimento mi voglio soffermare sul mondo del web.
Quando non si progetta con l’accessibilità in mente
L’accessibilità come detto, è un principio di sviluppo. Qualsiasi fornitore di soluzioni digitali, oggi, deve tenerne conto fin dall’inizio. Il team di sviluppo di prodotti e servizi ICT deve avere professionisti che nel loro bagaglio di conoscenze, abilità e competenze abbiano anche l’accessibilità.
Per l’ambito del web, l’Italia è stato il primo Paese a normare le competenze dei professionisti web con la norma tecnica UNI 11621-3 che al proprio interno contiene, per ogni profilo coinvolto, anche le conoscenze, abilità e competenze che deve avere il singolo professionista.
Come dico da anni in ogni tavolo (lo dissi, con applausi, anche ad un meeting organizzato dalle Nazioni Unite): non voglio avere professionisti che creano qualcosa e altri professionisti pagati per correggere il lavoro di chi ha lavorato male, e lo dico da professionista che viene chiamato per identificare i problemi creati dagli altri.
Quando si sviluppa un servizio web, bisogna pensare all’accessibilità sin dall’inizio: dalla scelta dei colori (che non devono creare discriminazione con rapporti di contrasto tra testo e sfondo insufficiente rispetto ai dettami normativi), all’adattabilità del contenuto (che deve poter essere adattato al dispositivo e alle impostazioni di caratteri definite dall’utente), sino alle caratteristiche tecniche di accessibilità da implementare nel codice, quel “qualcosa che non si vede”, ma che consente soprattutto a chi non vede di interagire con i contenuti.
Acquistare oggi un prodotto non accessibile significa avere effettuato un pessimo investimento, che può causare le problematiche sopra descritte. Quando ci si rende conto del problema, a volte è troppo tardi, per cui si cercano soluzioni che in alcuni casi possono essere più dannose che risolutive.
Il sito alternativo? No grazie
All’inizio del millennio, l’accessibilità era considerata qualcosa che obbligava a fare i siti web brutti e poco interattivi. Parzialmente chi lo sosteneva aveva ragione, in quanto le prime WCAG (1.0: 5 maggio 1999), le Linee Guida per l’accessibilità dei contenuti del web, erano stringenti per gli anni successivi in cui il web si è evoluto con l’epoca del web 2.0. Con l’uscita delle WCAG 2.0, nel dicembre del 2008, questa scusa è decaduta, ma per anni – e ancora oggi – si trovano servizi con siti web paralleli, incompleti e totalmente inutili.
Contenuti alternativi? Si, ma con attenzione
Le normative vigenti partono dal presupposto che alcuni oggetti e contenuti siano difficili da rendere totalmente accessibili. Parliamo di casi eccezionali, per i quali appunto è consentito sviluppare qualcosa di alternativo. Questo però non va confuso con alcune soluzioni che vanno a modificare “automagicamente” i siti web, per presentarli all’utente con personalizzazioni scelte dal produttore (e non dall’utente).
Attenzione agli automatismi
L’accessibilità è una cosa seria, come serie sono le regole da applicare. Quando abbiamo scritto le regole di accessibilità nella versione 2.0, abbiamo chiaramente scritto al capitolo 0.1 che i criteri da verificare possono essere verificati in alcuni casi con il supporto di strumenti automatizzati, ma in altri casi in modalità manuale. Per questo motivo, qualsiasi strumento che si utilizza per verificare l’accessibilità dei siti web è uno strumento accessorio, che riduce i tempi di verifica di alcuni criteri di successo, ma non sostitutivo dell’intervento umano.
Porto sempre l’esempio dei testi alternativi per le immagini: ogni immagine deve essere percepita dagli utenti con lettore di schermo (e anche per altre tipologie di disabilità, come quelle cognitive), e deve essere identificata come immagine informativa (che ha contenuti importanti) o decorativa (che non ha alcun contenuto interessante e può essere ignorata). Uno strumento automatizzato può aiutare a capire se l’immagine ha un testo alternativo o meno, ma non può dire se il testo è corretto oppure se un’immagine identificata come decorativa sia realmente una decorazione. Di esempi se ne potrebbero fare a bizzeffe, ne ho parlato sotto l’aspetto tecnico su webaccessibile.org a cui rimando per un approfondimento.
Ora pensiamo di spostarci sul mondo degli oggetti che promettono i “miracoli” in tema di accessibilità: ne esistono a decine, alcuni di derivazione di altri, e domandiamoci: come possono questi strumenti correggere automaticamente i problemi di accessibilità? Come possono tali strumenti rendere accessibile alla tastiera un menu di navigazione che chi l’ha progettato non ha definito alcun criterio per identificarlo come menu di navigazione?
Attenzione al “cerotto”
Quando ci si rende conto dell’assenza dell’accessibilità, magari rischiando sanzioni per parecchie decine di migliaia di euro, si cerca di correre ai ripari. Prima ci si rivolge al fornitore che ha sviluppato il servizio, il quale magari candidamente dirà: eh, ma il contratto non lo prevedeva… Ciò per le forniture alle grandi aziende poteva essere valido fino al 4 novembre 2022, ma dal 5 novembre 2022 tutti i contratti che non prevedono il rispetto dell’accessibilità per siti web e applicazioni mobili sono nulli.
Chiaramente la domanda che si deve porre l’azienda oggi è: il mio fornitore ha le competenze per fare un servizio accessibile? Se la risposta è no e il fornitore non ha ancora capito che l’accessibilità oramai è un obbligo (e che dal 28 giugno 2025 non potranno più immettere nuovi prodotti e servizi non accessibili nel mercato europeo, grazie all’European Accessibility Act), forse è bene guardarsi attorno.
In molti casi, si prova a ripiegare verso le soluzioni “tampone”, ossia quei prodotti accennati in precedenza che dovrebbero risolvere le problematiche di accessibilità, ma che in alcuni casi, anche eclatanti, li amplificano.
Le azioni legali verso chi usa il cerotto: il modello americano
Negli Stati Uniti, le Associazioni di persone con disabilità avviano quasi quotidianamente azioni legali verso grandi aziende di e-commerce e di servizi (soprattutto finanziari), concentrandosi particolarmente verso i soggetti che utilizzano quei fantomatici widget.
Ho avuto modo di poter visionare degli atti di citazione in cui, in modalità “fotocopia”, le Associazioni e/o soggetti con disabilità indicavano la presenza di tali oggetti come di un “tampone” che dimostra la conoscenza dei problemi di accessibilità dei propri servizi, ma non la volontà di risolverli sotto l’aspetto strutturale. Negli atti di citazione, oltre al risarcimento danni per ogni giorno di ritardo nell’adeguamento, chiedono al giudice di ordinare una serie di attività al fine di inserire l’accessibilità nei processi dell’azienda, con costante monitoraggio.
E in Italia?
In Italia possiamo notare l’ampia diffusione di diverse soluzioni “cerotto”, in alcuni casi giustificate come: intanto mettiamo il cerotto ma nel frattempo stiamo lavorando per… E nel frattempo, l’utente che accede al sito web “potenziato” da tali soluzioni si trova obbligato ad utilizzarle: sì, perché il sistema riconosce se l’utente naviga tramite la tastiera e quindi gli propone i presunti miglioramenti e le personalizzazioni sono personalizzazioni definite da chi ha prodotto la soluzione, che pertanto non è detto che siano alternative idonee all’esigenza dell’utente con disabilità.
In altri casi, invece, come una beffa, escono pomposi comunicati stampa delle aziende convinte di avere reso i siti «completamente fruibili dalle persone con disabilità». Ciò punta l’attenzione anche sul piano della comunicazione: anche chi fa comunicazione deve saper comunicare in modo accessibile: considero imbarazzante, ad esempio, leggere comunicati in cui oltre a dichiarare di essere i primi del settore di pertinenza in Italia ad essere “pienamente accessibili” con l’uso di plugin, si invita gli utenti a selezionare l’apposito pulsante in basso a destra/sinistra di colore giallo/verde/rosso nel sito per attivare le funzionalità, discriminando con una sola frase almeno tre categorie di persone con disabilità.
Più volte ho detto che tali azioni portano a “presunti miglioramenti”. Dico presunti perché nell’ultimo caso che ho analizzato di un grande consorzio che si dichiara pienamente accessibile, tutte le informazioni (ma proprio tutte) presenti nel menu principale (quello che contiene appunto i contenuti principali) non sono raggiungibili né tramite l’uso della sola tastiera o con lettore di schermo. E tutto questo, nemmeno abilitando l’apposita funzionalità di miglioramento per navigazione tastiera si risolve. Se attiviamo inoltre il profilo “ipovedente”, la situazione colori peggiora ulteriormente rispetto a quella iniziale, raggiungendo rapporti di contrasto “imbarazzanti” e che a colpo d’occhio chiunque può capire che non risolvono il problema per gli utenti ipovedenti.
Che fare, quindi? Un decalogo per non sbagliare
Lascio alcuni consigli da “anziano” con oltre vent’anni di esperienza nel settore, una sorta di decalogo da utilizzare per un web migliore:
1. Richiedere ai fornitori, con obbligo contrattuale, il rispetto dell’accessibilità. Anche se nessuna normativa “dedicata” vi richiede di applicare l’accessibilità, ricordatevi che valgono sempre le norme sulla discriminazione nell’àmbito lavorativo (il citato Decreto Legislativo 216/03) e della clientela/utenza discriminata da soluzioni inaccessibili (Legge 67/06).
2. Acquistare solo soluzioni attestate come accessibili. Chiedete al fornitore una scheda di valutazione dell’accessibilità coerente con i prospetti A.1 (per siti web) e A.2 (per le app mobili) della norma tecnica UNI CEI EN 301549:2021. In caso vi siano punti di non conformità, richiedete quali sono i tempi previsti di rientro/adeguamento.
3. Verificare l’accessibilità in ogni passo del processo di sviluppo. Solo analizzando fase per fase le specifiche criticità in tema di accessibilità, è possibile evitare di dover intervenire alla fine con la necessità di dover disfare un lavoro.
4. Coinvolgere persone con disabilità nelle fasi di test. L’accessibilità è sia un aspetto tecnico che un aspetto umano. Premesso che le verifiche di accessibilità per la conformità normativa vanno effettuate da persone con adeguata conoscenza tecnica della citata norma UNI CEI EN 301549:2021, oltre alla verifica tecnica è auspicabile una verifica “di uso” da parte di persone con disabilità, per migliorare l’usabilità dei processi. Le persone con disabilità, quindi, non dovrebbero identificare errori tecnici (che in alcuni casi non potrebbero nemmeno identificare perché “nascosti” alle loro tecnologie), ma errori logici e di comprensibilità/uso degli elementi dei siti web.
5. Formare il personale che si occupa di comunicare con il sito web. Un sito web che nasce accessibile non è detto che lo rimanga a vita, anzi è molto improbabile. Qualsiasi articolo, contenuto, materiale di comunicazione prodotto senza seguire le regole di accessibilità può causare discriminazione e nuove barriere che vanno poi rimosse.
6. Evitare di autoincensarsi. Dichiarare di essere completamente accessibili è tecnicamente una falsità. Nessuno, oggi, può dichiarare la totale conformità di un servizio web, a meno che non si tratti di un servizio con una o pochissime pagine statiche.
7. Evitare le soluzioni “cerotto”. La tentazione è grande: il tempo è poco, bisogna intervenire e il budget non lo consente, ergo metto la soluzione “cerotto” e temporaneamente risolvo il problema. Purtroppo, abbiamo visto che non è così, anzi il rischio è di attirare critiche e potenziali contenziosi.
8. Fornire un canale di comunicazione all’utenza. Le persone con disabilità non vengono nel vostro sito web per farvi causa, ma per ottenere informazioni e servizi. Fornendo un canale reale di ascolto e di feedback (obbligatorio per le Pubbliche Amministrazioni e per le grandi aziende), facilmente raggiungibile e identificabile, consentirete un continuo miglioramento dell’accessibilità dei siti.
9. Monitorare costantemente l’accessibilità. Quando il sito è strutturalmente ottimizzato per l’accessibilità, ma sono presenti molte persone che producono contenuti, è necessario saltuariamente effettuare delle verifiche a campione dei contenuti, anche dotandosi eventualmente di strumenti di scansione che, come già detto, hanno delle limitazioni, ma possono essere comunque di supporto per identificare le problematiche nei contenuti.
10. Iniziare a pensare accessibile. Qualsiasi fase, processo aziendale che coinvolge il digitale deve essere pensato in modo accessibile. Si pianificano delle attività formative? Bisogna verificare se gli strumenti digitali e/o se la struttura è accessibile. Stiamo pianificando la nuova immagine coordinata aziendale? Verifichiamo che sia accessibile, perché ogni documento prodotto utilizzando l’immagine coordinata, se inaccessibile, genera un contenuto non accessibile.
L’accessibilità, by default, si può fare. Basta volerlo fare.
“Il digitale accessibile”
Avviata recentemente sulle pagine di «Superando.it», la rubrica Il digitale accessibile è firmata da Roberto Scano, che da oltre vent’anni si occupa di accessibilità informatica, ossia dal 2002, anno in cui entrò nel W3C (World Wide Web Consortium), come rappresentante dell’IWA (International Web Association), partecipando allo sviluppo delle WCAG 2.0 (Web Content Accessibility Guideline), le Linee Guida per l’accessibilità dei siti web. Nel corso degli anni si è occupato del tema dell’accessibilità anche in àmbito normativo, supportando la nascita della cosiddetta “Legge Stanca” (Legge 4/04: “Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici”), in materia di accessibilità ICT (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione) e avviando iniziative a livello nazionale, per diffondere il tema dell’accessibilità “by design”.
Attualmente presiede l’Associazione dei Professionisti Web IWA e le Commissioni UNI dedicate alle professionalità digitali e all’accessibilità digitale. Svolge inoltre l’attività di consulente per aziende e Pubblica Amministrazione.
Nella colonnina qui a fianco (Articoli correlati), i contributi che abbiamo finora pubblicato, nell’àmbito della rubrica Il digitale accessibile.