Eliminare il rischio della scelta significa rinunciare a vivere

Concludiamo con il presente contributo la trattazione curata da Antonio Bianchi, dedicata alla Vita Indipendente delle persone con disabilità, al “Dopo di Noi”, al progetto individuale e a molto altro ancora, dopo avere dato spazio nei giorni scorsi al testo introduttivo intitolato “Poter sbagliare, oltre ogni condizione di controllo e alla seconda parte (“Vita Indipendente, ‘Dopo di Noi’ e ‘autodeterminazione partecipata’”)

Concludiamo con il presente contributo la trattazione curata da Antonio Bianchi, dedicata alla Vita Indipendente delle persone con disabilità, al “Dopo di Noi”, al progetto individuale e a molto altro ancora, dopo avere dato spazio nei giorni scorsi al testo introduttivo intitolato Poter sbagliare, oltre ogni condizione di controllo e alla seconda parte (Vita Indipendente, “Dopo di Noi” e “autodeterminazione partecipata”).

Ombra di persona con disabilità sopra un'alturaIl tema della transizione
Nello spazio di discussione anche nel mondo cooperativo e associativo il tema della transizione, sul come andare da qui a lì [da un modello a carattere protettivo assistenziale a un modello caratterizzato dal protagonismo delle persone con disabilità, in linea con la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone on Disabilità, N.d.R.], è spesso evocato e ugualmente spesso non affrontato. Per essere credibile, infatti, il rimando a una transizione, l’auspicio di una transizione, deve definire delle azioni di modellamento dell’approdo, delle azioni di abbandono di pratiche correnti ritenute inadeguate. Deve prefigurare un tempo in cui il passaggio avviene, degli elementi di verifica in itinere, delle possibili azioni correttive. Deve poter considerare anche degli elementi di rottura e di come possano essere gestiti. Se il ponte è obsoleto, è necessario chiuderlo al traffico, fare manutenzione se possibile, o abbatterlo e ricostruirlo se necessario. Ci saranno dei disagi e sarà necessario considerarli, renderli trasparenti e cercare di minimizzarli.
La pandemia ha evidenziato drammaticamente, se ce ne fosse stato bisogno, l’inadeguatezza del modello “custodialistico” delle diverse forme di servizi residenziali o diurni, dedicati e separati. È il tema della segregazione. Parola dura, urticante, a cui si ribellano i tanti gestori di questi servizi che rivendicano le proprie intenzioni e pratiche inclusive. Ma l’impossibilità di relazione, amplificata enormemente rispetto a quella vissuta dalla popolazione in generale, è un dato che si è manifestato in modo evidente. Allora è necessario porre mano ai modelli e cambiarli, sovvertirli. Se non ora quando? Ascoltare la voce delle persone con disabilità su ciò che le riguarda, invece di mantenerle a livello di sopravvivenza.

Progetto individuale
Una delle critiche riferibili all’impianto della Convenzione ONU è un certo carattere individualistico a cui una lettura superficiale può prestarsi e a cui la concettualizzazione in termini di diritti dà corpo. Ma se per alcune situazioni, numericamente minoritarie, la scelta individualistica è realizzabile, al di là di una valutazione di carattere etico e morale, per moltissime altre persone il tema si pone più a livello di contesto sociale. Che può favorire spazi di indipendenza perché in grado di sopportare l’errore, di essere in grado di gestire il rischio. A questo riguardo appaiono particolarmente inadeguati dispositivi che parcellizzano la risposta, definendo vincoli amministrativi e di accertamento della qualità che non riescono a considerare aspetti relazionali, che non riescono a valorizzarli né a promuoverli.
Diventa cruciale il lavoro degli operatori educativi in termini di tessitori di reti sociali, di occasioni di scambio, di coinvolgimento della comunità, non come semplice luogo dove vengono svolte delle attività, ma come attore significativo per attivare relazioni, generare senso, bellezza.

Disegno con tante persone colorate

Rappresentazione di una comunità attiva

Come si coinvolge la comunità?
Il tema del coinvolgimento della comunità appare d’altra parte di complessità intimorente. La costruzione di società liberaldemocratiche, competitive, meritocratiche, sembra dare sostanza al thatcheriano there is no alternative [“non c’è alternativa”, N.d.R.] invocato per affermare la naturalità della soluzione che si propone. Assistenzialistica. Segregante. Familistica. Compassionevole. Personalmente non ho strumenti sociologici per proporre modelli su questo versante. Ma credo sia necessario investire sulla ricerca in questa direzione. Nel campo dell’economia civile ci sono concettualizzazioni ed esperienze interessanti. In fondo siamo il Paese che ha visto svilupparsi l’esperienza di Adriano Olivetti. Il suo modello ha forse ancora qualcosa da dirci.
Si tratta di un terreno in cui la prospettiva non può che essere lunga, molto lunga. Disegnare e realizzare dei modelli di società in cui lo spazio individuale sia importante e riconosciuto, ma non sia pervasivo e lasci spazio alla collaborazione in cui misurare la propria soddisfazione e non nella rincorsa a salire sull’ascensore sociale. Dove io salgo lasciando i più a terra.

Come esprimerlo? Il crinale fra supporto e libera espressione
Le scelte che compiamo rispondono ai princìpi di autodeterminazione che alcuni studiosi individuano nell’autonomia senza interferenza, nella piena consapevolezza, nella chiarezza degli obiettivi, nella costruzione coerente della propria realizzazione? Ma lo spazio del possibile viene semplicemente dato o può essere costruito cooperativamente, e come?
Probabilmente nessuna persona, o forse pochissime, si muovono nella propria esistenza sulla base di un progetto definito, sancito, pianificato, che preveda le possibili “perturbazioni”, che ne definisca i possibili bivi e le conseguenti scelte. E probabilmente nessuna persona, o forse pochissime, prendono decisioni importanti in modo solitario, senza interferenze, cercate o subite che siano, senza condizionamenti.
Troppo spesso le attuali progettazioni si limitano a considerare le poche scatole concettuali disponibili dentro cui decidere di investire il tempo della propria vita. E troppo spesso, quasi sempre, sono considerate scelte definitive. Occorre rompere la rigidità delle standardizzazioni e delle funzioni di sorveglianza della qualità basate su aspetti formali che non considerano l’esito, o che considerano solo in modo formale la qualità di vita delle persone.
Occorre lasciare spazio all’immaginazione e alla generatività che si manifestano nel dialogo, nel confronto, nell’ascolto. Esperienze molto interessanti in questo senso sono rappresentate dal filone dialogico finlandese (T.E. Arnkil, J. Seikkula, Metodi dialogici nel lavoro di rete. Per la psicoterapia di gruppo, il servizio sociale e la didattica, Erickson, 2013) riprese anche in esperienze significative nel nostro Paese. Ne hanno scritto in modo interessante ed esemplificativo Cecilia Marchisio e Natascia Curto nella loro trilogia per Carocci (si veda nei riferimenti bibliografici in calce).

Come si costruisce il progetto: strumenti
È allora inutile definire un progetto, come immaginato in modi diversi dalla Legge 328 del 2000, come proposto dalla LEDHA nella Legge Regionale della Lombardia 25/22 e come definito nella Legge Delega 227/21 in materia di disabilità? Certamente no. È importante considerare un orizzonte di tempo significativo e focalizzare le aspettative, i sogni, considerando i vincoli, le attitudini, le potenzialità, le occasioni. E darsi degli strumenti per provare a disegnare e realizzare questi passi immaginati.
Ma gli strumenti per ciò di cui stiamo parlando riguardano anche e forse prioritariamente lo sviluppo del disegno, ancor più che la sua realizzazione. Lo sa qualunque progettista di un sistema informatico, una piattaforma web, poniamo. Chi chiede la consulenza, “il cliente”, è esperto del suo dominio, sa quali siano i dettagli del suo operare e sa quali siano cruciali e quali quelli accessori, ma ha spesso un’idea sommaria di quello che vuole sia realizzato. Gli mancano le parole e le immagini. Un buon progettista ascolta con attenzione e si lascia informare e suggestionare dalle parole e dalla conoscenza dell’interlocutore e lo aiuta a immaginare quale sia la risposta concreta che preferisce si costruisca. E molto spesso si tratterà non di un singolo soggetto, ma di un gruppo, al cui interno sta quella conoscenza. Si tratta di un processo complesso e delicato in cui si può tagliare corto vendendo la soluzione standard che si ha già nel cassetto o dedicando il giusto tempo in cui si può costruire qualcosa di veramente bello e interessante e funzionale ed economicamente realizzabile.
Cito qui tre strumenti: matrici ecologiche, metodi dialogici, CAA per l’accesso alla cultura. Ciascuno di questi strumenti rimanda a una grande complessità e articolazione interna. Non voglio certo sviscerarli qui, non ne avrei neppure la conoscenza adeguata.

Il professor Balthazar e una delle sue macchine “risolutrici di problemi”

Il professor Balthazar e una delle sue macchine “risolutrici di problemi”

Che fare? Ciascuno ha in mente un nutrito catalogo di situazioni in cui ognuno di questi strumenti è inefficace. Non si tratta della mancanza di prerequisiti della persona, molto spesso presi a pretesto per non mettere a disposizione alcuna possibilità, alcuno strumento, ma molto spesso di mancanza di prerequisiti del contesto, in termini di conoscenza, di risorse, di disponibilità a esplorare percorsi nuovi. Non sembra allora esistere alternativa a selezionare la selce con cui costruire nuovi utensili, e verificarne l’efficacia rispetto a quella persona specifica in relazione a quella situazione specifica. Certo, muovendosi col metodo scientifico, ma considerando il termine nella sua accezione più pertinente allo spazio sociale e di vita, quindi non solo sanitario e non solo basato sul raggiungimento di obiettivi decontestualizzati. Cercando di evitare la tentazione di affidarsi fideisticamente a uno strumento che, come le “macchine del professor Balthazar” (si veda l’immagine poco sopra pubblicata), ci forniscano la soluzione bell’e pronta, buttando qualche ingrediente, qualche dato, nell’imbuto di input.
Un metodo scientifico che sappia uscire da una certa semplificazione e banalizzazione del modello e che sappia considerare le perturbazioni, l’infinita variabilità delle situazioni umane e che ponga come metro ultimo del successo o meno di un processo il risultato in termini della persona coinvolta.
Da questo punto di vista il già citato metodo dialogico nelle sue accezioni di dialogo aperto e dialogo sul futuro (Arnkil, Seikkula cit.) sembra offrire allo spazio di progettazione che qui ci interessa qualche garanzia in più. Il progetto così costruito avrà bisogno di più tempo, ma avrà una significatività maggiore. E avrà sviluppato anche metodi e prassi e relazioni significative per la realizzazione.
Mi permetto di descrivere qui con un minimo di maggiore dettaglio il tema della CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa) per l’accesso alla cultura, tema che conosco meglio.
Il nostro Paese vede la presenza di uno sviluppo molto interessante, e per ora ancora unico, a livello internazionale, di una narrativa in simboli della comunicazione aumentativa che ha ormai una ventina d’anni. Questa specificità ha esplorato modalità diverse di rappresentazione simbolica e linguistica, ma con la base comune del desiderio di permettere l’accesso alla cultura a chi non può accedere o ha difficoltà ad accedere al codice alfabetico. Ascoltare le storie che sono alla base della nostra cultura, dalla voce prima dei nostri genitori e poi anche di altri interlocutori, è stata la base con cui ci siamo costruiti una rappresentazione del mondo. Poter avere accesso a quelle storie, e poi a racconti e testi sempre più adulti e complessi, diventa la chiave per poter avere le parole per esprimere le proprie scelte, magari anche sovvertendo i paradigmi presenti in quelle storie, nella cultura che le esprimeva. È qualcosa di simile a quanto fatto da don Lorenzo Milani con i bambini e ragazzi e poi adulti di Barbiana. Dare le parole. O, al contrario, ciò che George Orwell immagina in 1984 nell’impoverimento progressivo della lingua, con la neolingua. Togliere le parole.
E non di soli libri di narrativa è intessuta la nostra base culturale. Ma di consapevolezza dello spazio pubblico, di come orientarsi in un ospedale, sapere come si svolge un esame diagnostico, conoscere la storia della città che abito, i diritti e doveri di cittadino, come e per chi votare. E tornando al tema della progettazione della vita indipendente: dove e con chi vivere, come trascorrere il mio tempo, al lavoro e fuori dal lavoro, quali relazioni coltivare e facendo cosa insieme. Possibilità di nominare, costruire, immaginare e dare forma insieme a una costruzione provvisoria, ma comunque importante. Cercando insieme le parole migliori, che stanno meglio insieme, per esprimere il mio pensiero.

Manifesto LEDHA 2019 inbook

Conclusioni in versione inbook del “Manifesto di LEDHA per la Voce delle Persone con Disabilità”, prodotto nel 2019.

Persone con maggiore necessità di supporto
Questo approccio considerato nella sua dimensione di sistema, riguardante non solo il singolo, ma il contesto sociale, considerando l’affiancamento di strumenti pronti tra cui scegliere, i libri ad esempio, e strumenti costruiti in modo personalizzato, tabelle di scelta, tabelle di comunicazione, strumenti per la consapevolezza di cosa succederà nell’arco di un certo tempo o di un certo processo, strumenti per esprimere non solo bisogni primari ma anche emozioni, e poi pensieri, questo approccio può diventare una possibilità per permettere l’espressione di autodeterminazione anche alle persone che necessitano di maggiore supporto.
Fattore comunque fondamentale, particolarmente in queste situazioni complesse, ma per tutte le situazioni, è il rispetto dell’alterità, fin da quando l’“altro” è un bambino, anche un bambino molto piccolo. E anche quando l’“altro” sembra non essere in grado di esprimere se non bisogni primari. Per quanto difficile sia l’operazione di consegna di responsabilità al figlio con grandi difficoltà nel gestire la propria vita, per quanto siano sempre in agguato possibili condizionamenti, per quanto sia o sembri fragile e contraddittoria l’espressione di una scelta, non c’è alternativa a fornire concretamente occasioni reali e significative di scelta per poter irrobustire questa capacità. Non è possibile farlo fingendo o addestrandosi in “spazi palestra”, come è ancora molto diffuso in àmbiti residenziali, diurni o cosiddetti di formazione all’autonomia.
Non necessariamente l’abitare è lo spazio primario in cui esercitare queste scelte. Non necessariamente soprattutto per persone con maggiore necessità di supporto. Ma questo non può essere mai giustificazione per non attivare occasioni concrete di protagonismo, di partecipazione. Un esempio in questo senso è la scrittura collettiva.
In Lettera a una professoressa il testo è superiore alle singole capacità espressive dei ragazzi, è lo spazio di possibilità che è stato creato che permette  il contributo anche a chi non saprebbe iniziare un pensiero davanti alla pagina vuota. È un’esperienza che abbiamo visto funzionare, scrivendo in simboli, anche con persone adulte che fino a quel momento non avevano mai potuto pensare di poter scrivere una storia. Il Gruppo Parola promosso presso l’Arche di Bologna è un esempio significativo in questo senso. L’iniziale ritrosia e dipendenza dall’educatore lascia spazio alla possibilità di dire una propria parola, di scegliere fra due alternative poste dai compagni, il protagonista muore o uccide il drago?

Poter sbagliare
Consegnare all’altro la possibilità di sbagliare e poter sperimentare la responsabilità della scelta, la conseguenza di quella scelta. Accettando il rischio, anche quello che la fiducia accordata possa essere tradita. Accettando il rischio che possa accadere una caduta, anche rovinosa. Accettando che ci sia un rischio, sia pur reso il minimo possibile, anche mortale. Eliminare quel rischio significa rinunciare a vivere, non esistere.
Se il rischio non è assunto dal singolo o dalla sola famiglia, ma diventa assunzione di responsabilità allargata, nella comunità, allora aumenterà la possibilità di accoglierlo. Potrò sbagliare strada, perché ci sarà qualcuno che mi aiuterà a ritrovarla. Potrò trovarmi senza parole davanti a uno sportello perché ci sarà qualcuno che mi aiuterà ad esprimere la mia domanda. Può succedere che io cada in casa da solo, perché c’è qualcuno che si interessa di come sto e se ne accorge e mi viene in soccorso. Può accadere che io scivoli sul tombino ghiacciato al bordo di una rotonda, perché qualcuno si preoccuperà di deviare il traffico e chiamare l’ambulanza e aiutarmi nell’attesa. E ci sarà il servizio sanitario universale a cui mi potrò rivolgere con fiducia.
Infine. Non si tratta di individuare panacee, ma di rispettare sempre l’alterità, la dignità dell’altro. Essere umano, fratello, compagno di strada. E insieme costruire situazioni creative, personali, interessanti, belle, e trarne soddisfazione insieme.
(3-fine)

Il presente contributo, insieme a “Poter sbagliare, oltre ogni condizione di controllo” e a “Vita Indipendente, ‘Dopo di Noi’ e ‘autodeterminazione partecipata’”, già pubblicati (a questo e a questo link), è già apparso nel n. 5 della testata univers@bility.it (Vannini Editoria Scientifica). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

Bibliografia:
– Maria Antonella Costantino, Costruire libri e storie con la CAA. Gli inbook per l’intervento precoce e l’inclusione, Erickson, 2012.
– Carlo Lepri, Viaggiatori inattesi. Appunti sull’integrazione sociale delle persone disabili, Franco Angeli, 2011.
– Cecilia Maria Marchisio, Percorsi di vita e disabilità. Strumenti di coprogettazione, Carocci, 2019.
– Cecilia Maria Marchisio, Natascia Curto, Costruire futuro. Ripensare il dopo di noi con l’Officina della vita indipendente, Erickson, 2017.
– Cecilia Maria Marchisio, Natascia Curto, Diritto al lavoro e disabilità. Progettare pratiche efficaci, Carocci, 2019.
– Cecilia Maria Marchisio, Natascia Curto, I diritti delle persone con disabilità. Percorsi di attuazione della convenzione ONU, Carocci, 2020.
– Giovanni Merlo, Ciro Tarantino (a cura di), La segregazione delle persone con disabilità. I manicomi nascosti in Italia, Maggioli, 2018.
– Enrico Montobbio, Carlo Lepri, Chi sarei se potessi essere. La condizione adulta del disabile mentale, del Cerro, 2000.
– Matteo Schianchi, Disabilità e relazioni sociali. Temi e sfide per l’azione educativa, Carocci, 2021.
– Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1967.
– Tom Erik Arnkil, Jakko Seikkula, Metodi dialogici nel lavoro di rete. Per la psicoterapia di gruppo, il servizio sociale e la didattica, Erickson, 2013.

Riferimenti web:
° Cosa sono gli inbook.
° Bibliografia degli inbook pubblicati.
° Anteprima degli inbook pubblicati.
° Altri testi per l’accessibilità alla cultura e al contesto sociale.
° Centro Sovrazonale di Comunicazione Aumentativa di Milano e Verdello.
° Centro Studi inbook, per un accesso democratico alla cultura.
° Rete delle biblioteche inbook.
° Per tutte le persone con disabilità: conversazione con Lucio Moioli, segretario generale di Confcooperative Bergamo e Matteo Schianchi, storico e ricercatore presso l’Università di Milano-Bicocca.
° Comunità partecipi. Inclusione e partecipazione nella società. Grumello del Monte, 2019.
° Riti di passaggio, in Persone con disabilità.it, Antonio Bianchi, 2013.
° Il mio posto nel mondo, in «Ricerca e Pratica», Mario Negri, Antonio Bianchi, 2016.

Antonio Bianchi è padre di Irene e Pietro, quest’ultimo un giovane con disabilità intellettiva. Lavora al Centro Sovrazonale di Comunicazione Aumentativa nel Policlinico di Milano. È ingegnere elettronico e consigliere della LEDHA, la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità che costituisce la componente lombarda della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
Il 19 dicembre 2021 è caduto in curva, in bicicletta, riportando una frattura frammentata e scomposta del femore e dell’omero all’altezza delle articolazioni dell’anca e della spalla.

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