Abbiamo già dato spazio a varie opinioni sugli articoli pubblicati di recente dalla giornalista Concita De Gregorio (Il valore di un selfie e La morte del contesto) e sulle prese di posizione da essi suscitate, dando vita ad un dibattito che riteniamo certamente interessante (si veda alla colonnina qui a fianco degli Articoli correlati).
Continuiamo a farlo, pubblicando questa volta il contributo di Paola Di Michele, insegnante di sostegno e già assistente all’autonomia e alla comunicazione di studenti e studentesse con disabilità, che si rivolge direttamente alla giornalista.
Gentile signora De Gregorio, sono un’insegnante specializzata su sostegno e, prima ancora, assistente educativa all’autonomia e comunicazione degli studenti e delle studentesse con disabilità.
Le scrivo per chiarirle alcune questioni che, alla luce del suo editoriale di “scuse” in cui si appella alla dittatura del linguaggio “politicamente corretto”, temo potrebbero non esserle chiare.
In primo luogo, diciamo persone “con” disabilità perché c’è una Convenzione ONU la quale specifica il fatto che, e dovrebbe essere ovvio, prima ci sono le persone e poi, semmai si accompagna ad esse una qualche forma di disabilità. Non è questione di linguaggio, ma di sostanza.
Se volessi parlare male di un gruppo di influencer che distrugge un bene artistico potrei appellarmi ad un vocabolario assai ampio di cui, grazie al cielo, la nostra lingua è riccamente dotata. Potrei parlare di reato, di mancanza di rispetto verso i beni comuni. Financo di carenze educative. Ma fare il parallelo fra la maleducazione e la disabilità intellettiva è una scelta di sottopancia, un richiamo ancestrale alla parte più brutale della nostra coscienza. E non aggiunge nulla a un ragionamento che può e deve essere più ampio e articolato alla ricerca delle motivazioni di un fenomeno.
Parlare di classi differenziali, di sillabazioni, di bocche ripulite non è andare fuori contesto, o usare un linguaggio politicamente scorretto. È semplicemente fuori luogo.
E allora forse non sa quanta fatica facciamo, insegnanti e educatori, per abolirle davvero, queste classi differenziali. Quanta fatica facciamo anche con certi colleghi perché gli alunni con disabilità possano davvero essere inclusi, a scuola e nel mondo che li aspetta lì fuori. Un mondo dove ancora dire “ritardato” è un insulto. Un mondo in cui abbondano la “pietà pelosa” e la mancanza di empatia. Un mondo in cui lavoratori che si occupano delle persone più fragili sono “lavoratori di serie B” e di cui certi sepolcri imbiancati e certi salotti lustri non avranno mai un’opinione di lavoro dignitoso.
Siamo quelli che, in fondo, si occupano dei “residui” improduttivi della società, di quelli che vengono scansati sugli autobus, di quelli che le mamme dei compagni, spesso, non invitano ai compleanni dei figli.
Eppure, mi creda, un po’ mi dispiace per lei. Perché non saprà mai quale dolore per ogni caduta o fallimento, per ogni volta che vengono esclusi, dai compagni o da altri adulti, o la prima volta che si accorgono di esserlo, esclusi, o quale ansia sia pensarli senza difese di fronte alle cattiverie del mondo.
Ma… Non saprà mai nemmeno quale commozione si prova la prima volta che dicono una parola; la prima volta che dicono «faccio da solo»; quale orgoglio quando fanno il saggio di fine anno bene e anche meglio degli altri. Non saprà mai quale orgoglio, quale gioia, quale soddisfazione si prova a lasciarsi guidare da loro nella scoperta di angoli nascosti del mondo, che dalla prospettiva di “adulti normodotati” non avremmo neanche potuto immaginare.
Un mondo, lo ricordi, che è di tutti ed è pieno di angoli in ombra in cui si nascondono cose meravigliose che, forse, lei non conoscerà mai.