Anche Marta Migliosi, donna con disabilità, attivista per i diritti delle persone con disabilità, propone ai nostri Lettori e Lettrici una propria riflessione sugli articoli recentemente pubblicati dalla giornalista Concita De Gregorio (Il valore di un selfie e La morte del contesto) e sulle prese di posizione da essi suscitate, ciò a cui abbiamo dedicato nei giorni scorsi una serie di altre opinioni (si veda alla colonnina qui a fianco degli Articoli correlati). Anche Migliosi si rivolge direttamente alla giornalista, oltreché al direttore della testata «la Repubblica», in cui quei testi sono apparsi.
Egregio direttore, egregia Concita De Gregorio, vi scrivo in quanto persona con disabilità che si sente amareggiata e delusa da due recenti articoli.
La rubrica Invece Concita, infatti, ha ospitato il testo intitolato Il valore di un selfie, contributo dal linguaggio discriminatorio e quindi violento verso le persone con disabilità. Vi si racconta un atto vandalico, molto grave ovviamente, usando in senso dispregiativo le persone con disabilità per sminuire e insultare coloro che hanno commesso il fatto.
Ciò dimostra quanto noi persone con disabilità siamo rese invisibili nelle narrazioni giornalistiche, quanto possiamo essere “oggettificati” e usati in senso dispregiativo per indicare un atto insensato, senza capire il danno che produce un certo tipo di linguaggio.
“Oggettificare” significa non riconoscerci come persone, stigmatizzare un deficit cognitivo ad un uso irragionevole del comportamento, significa vederci come “subpersone”.
Il fatto che alcuni di noi abbiano bisogno dell’insegnante di sostegno venga descritto come metafora per indicare una persona di poco valore, di derisione e scherno, ci porta anni indietro di lotte per un linguaggio corretto e rispettoso della complessità delle nostre esistenze. E il fatto che una testata importante come «la Repubblica» e una giornalista di spessore culturale come lei, Concita De Gregorio, abbiate ritenuto legittimo scrivere e pubblicare un testo del genere, sta proprio a significare la nostra invisibilità. Che un simile linguaggio provenga da voi, inoltre, presuppone una responsabilità maggiore nell’uso delle parole. La conseguenza è una legittimazione chiara all’uso abilista delle parole, ossia: se può farlo «la Repubblica», se può farlo Concita De Gregorio, lo possono fare tutte e tutti.
Le sue scuse, nel testo intitolato La morte del contesto, hanno raddoppiato il danno, utilizzando termini come “handicap” e rivolgendosi ai nostri genitori come se fossero gli unici interlocutori possibili. Invece siamo noi, un gruppo di persone con disabilità che sente sulla propria pelle lo schiaffo arrivato. Siamo noi che in questo mondo sempre più faticoso cerchiamo di lottare, alle volte ci sembra contro i mulini a vento, contro una società che invece di ascoltarci ci viviseziona, ci stereotipizza e ci definisce «persone meravigliose afflitte da un danno», chiudendo ogni tipo di interlocuzione.
Le sue scuse non le accetto, non in questo modo, perché non bastano, sono un inizio ma non sufficiente, soprattutto quando si fa riferimento al «linguaggio politicamente corretto come freno all’azione». Iniziare da un linguaggio rispettoso verso le persone che appartengono alle categorie marginalizzate, soprattutto in àmbito giornalistico, è l’unica strada percorribile e assumersi la responsabilità del proprio ruolo e delle parole che ha utilizzato, è fondamentale, spinge l’azione e non la frena. Non vederlo e nascondersi dietro «non si può dire più niente» è non volersi assumere questa responsabilità.
Spero che prenderà consapevolezza di ciò e si prenda del tempo per farsi delle domande, senza chiedere a noi persone con disabilità di incassare il danno accontentandoci delle briciole. Lo facciamo già per sopravvivere a questo mondo abilista e vorremmo smettere.