Circa trent’anni fa, in un piccolo Comune di provincia, un ipermercato stava rinnovando i propri locali. Già in fase di progettazione vennero osservate tutte le leggi vigenti, incluse quelle per l’abbattimento delle barriere architettoniche. Anche per quanto riguarda le casse adibite alla riscossione, ne vennero previste due con il varco più largo, munite di cartello recante l’icona delle persone con disabilità, per consentire il passaggio di un cliente in carrozzina. Sempre in fase di progettazione, i dirigenti del suddetto ipermercato ebbero un confronto con un’Associazione di categoria, la quale avanzò la proposta di predisporre tutte le casse maggiormente distanziate senza alcun contrassegno per persone con disabilità, in modo che i clienti, in carrozzina e non, potessero effettuare il pagamento in una qualunque cassa. Grazie alla sensibilità e alla lungimiranza dei dirigenti dell’ipermercato, tale proposta venne accolta, nella consapevolezza di entrambe le parti che anche l’originaria progettazione era, comunque, conforme alla legge. Tuttavia, essi vollero andare oltre la legge (non contro, oltre) e, nell’andare oltre, si determinò un nuovo paradigma concettuale di riferimento.
Ci sono autori che sostengono che gli esseri umani siano costruttori di significati! Ma qual è il nuovo significato che emerge dal citato aneddoto?
Con il nuovo paradigma concettuale si passò dal rivendicare un accesso garantito all’aspirare ad un accesso condiviso. A che pro? Potrebbe chiedersi qualcuno. In fondo, si potrebbe ribattere, l’importante è che una persona con disabilità possa andare a fare la spesa senza imbattersi in gradini o maniglie per aprire le porte! La risposta sta nell’ipotesi – sorretta da numerose ricerche di psicologia sociale – secondo cui la separazione e la distanza (sebbene non sia detto né sia automatico) possono alimentare il pregiudizio e (non è detto, non è automatico) il pregiudizio può sfociare in diffidenza, e (non è detto, non è automatico) la diffidenza può diventare l’anticamera della paura… con tutto quello che ne può seguire. Al contrario, la vicinanza, la condivisione, lo scambio (anche se non è scontato né automatico) possono contribuire ad aumentare le probabilità che il pregiudizio sia sostituito dal giudizio (ovvero un pensiero sostenuto dalla conoscenza) e la diffidenza lasci il posto, se non alla fiducia, almeno alla non diffidenza… che, di questi tempi, non è poco.
Tutto questo (non è detto, non è automatico) può favorire relazioni più distese che possono far prevalere l’empatia con tutto quello che ne può scaturire.
A tal proposito è significativo ed esemplare il concetto coniato dalla psicologia sociale, detto “sindrome di Stoccolma”. Con tale espressione si descrive la situazione insolita in cui le vittime di un sequestro finiscono per simpatizzare con i loro sequestratori, nonostante il comportamento inizialmente violento da parte di questi ultimi… È essenziale sottolineare che se l’azione dei sequestratori fosse stata fulminea, il vissuto dei sequestrati sarebbe stato contrassegnato dal terrore e dal rancore verso coloro che li avevano sequestrati. È stato il tempo, imposto dal prolungarsi delle trattative. ad avere reso possibile la nascita di una relazione e di un rapporto interpersonale fra vittime e carnefici che ha, non determinato, ma favorito, un atteggiamento di reciproca empatia. Non solo, infatti, i sequestrati finirono per solidarizzare con i loro sequestratori, ma anche questi ultimi finirono per essere meno aggressivi e minacciosi nei loro confronti.
L’intuizione di chi, negli Anni Settanta, volle la chiusura e il superamento delle strutture segreganti dedicate alle persone con disabilità, alle persone malate di mente ecc. poggia sul medesimo meccanismo afferente la psicologia sociale.
Inserire un malato di mente dimesso da un manicomio nel quartiere dove viveva, un alunno con disabilità nelle classi comuni, un detenuto in un ambiente di lavoro ecc. vuol dire, innanzitutto, avvicinare fisicamente queste persone a tutte le altre, favorire il loro mischiarsi con le altre, il confondersi fra le altre, e poi consentire al fattore tempo di fare il proprio lavoro, ovvero costituire le condizioni oggettive (di per sé necessarie, ma non sufficienti) dove possono innestarsi le condizioni soggettive al fine di favorire relazioni e rapporti interpersonali.
Tutto ciò dev’essere corroborato da adeguati catalizzatori sociali, animati da una tensione etica che si concretizza in operatori capaci, convinti e motivati, che facilitano e promuovono le relazioni sociali, l’implementazione di strumenti di sostegno, momenti di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, occasioni inclusive e di aggregazione.
Ecco perché non sono favorevole alle esperienze espressamente dedicate alle persone con disabilità: le persone con disabilità che vanno al mare fra di loro, che vanno in discoteca fra di loro, a mangiare la pizza fra di loro, a fare le gite fra di loro… è come se passassero a pagare alla cassa espressamente costruita per loro. Certo, accedono all’ipermercato, alla spiaggia, alla discoteca, alla pizzeria, ma non condividendo a pieno gli ambienti di vita con il resto del mondo, rimangono corpi estranei al tessuto sociale nel suo complesso.
Inizialmente ho parlato di lungimiranza di quei dirigenti che trent’anni fa accolsero la proposta dei membri di un’Associazione di persone con disabilità. È verosimile pensare che, non dico quella specifica circostanza, ma dozzine e centinaia di esperienze simili indussero l’ONU ad emanare nel 2006 la Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità, ufficializzando, in sostanza, il termine di progettazione universale, che, esemplificando, significa esattamente quel che fecero i suddetti dirigenti su suggerimento dei membri di quell’Associazione, ovvero: progettarono non espressamente per qualcuno, ma per tutti.
Considerazione a margine: che il pregiudizio sia superato dal giudizio e la diffidenza dalla fiducia non è una pia speranza. Dall’evoluzione – sulla spinta delle leggi fisiche e biologiche – sono stati selezionati i neuroni specchio i quali, oltre a connotare con un’impronta cognitiva i processi motòri, presiedono anche all’empatia. Abbiamo dunque la natura, la biologia dalla nostra parte e tuttavia ci sono due motivi per non abbandonarci a facili entusiasmi.
Il primo è che viviamo in una sorta di mondi paralleli, dove convivono individui proiettati nel futuro, altri perfettamente sintonizzati con il loro presente (talora più per conformismo che per convinzione) e altri ancora arroccati nel passato. Infatti, mentre trent’anni fa quei dirigenti lungimiranti e quell’Associazione vollero andare oltre e si proiettarono nel futuro, a cento metri da loro, in altri empori, vi si accedeva (e tuttora vi si accede) grazie alle porte munite di cellula fotoelettrica, ma, subito dopo tre metri, si rimaneva bloccati da tornelli anti-taccheggiamento, il tutto con il beneplacito di Uffici Tecnici Comunali e di altri Enti preposti a vigilare sul rispetto delle norme. E se qualcuno esprimeva il proprio disappunto nel vedersi bloccato dai tornelli, gentilissimi e disponibilissimi addetti al negozio, animati dalle migliori intenzioni, lo “tranquillizzavano”, dicendo che, tutte le volte che entrava nel loro negozio, poteva rivolgersi agli addetti del box office, i quali avrebbero allertato un addetto preposto a disattivare i tornelli stessi. In alternativa, lo invitavano a passare da un’altra parte, indicandogli un varco vicino alle casse adibite alla riscossione.
Questo è solo un esempio di mondi paralleli: simile distanza siderale tra mondi si riscontra fra alcune scuole dove si osservano buone pratiche inclusive e altre dove non le si osservano. E questo a parità di leggi, di risorse e di popolazione scolastica statisticamente analoga. Può succedere anche che in una stessa scuola, in un’aula ci siano buone pratiche e in un’altra no, e persino nella stessa aula possono esserci buone pratiche oppure no, a seconda di quale insegnante ci sia in una determinata ora.
Il secondo motivo è che i neuroni specchio sembrano non funzionare quando siamo sotto stress e abbiamo paura. Quando questo succede (sebbene non sia automatico) possiamo regredire verso forme primordiali di comportamento guidati più dall’archipallio (lo stesso cervello che hanno i coccodrilli) che dal più evoluto neopallio.