Non terapia complementare, ma attività ludico-ricreativa di sollievo

«Sta facendo discutere – scrive Vincenzo Falabella – la Proposta di Legge “Disposizioni per il riconoscimento e la promozione della mototerapia”, approvata recentemente dalla Camera e in attesa ora di passare all’esame del Senato. Parlare di attività ludico-ricreative utili a dare sollievo nelle strutture sanitarie, senza più parlare esplicitamente di “terapia complementare”, potrebbe essere utile in fase di approvazione definitiva del provvedimento. E anche precisare meglio a quali fondi si intende esattamente attingere per finanziare le attività previste»

Bimbo ricoverato in ospedale

Un bimbo ricoverato in ospedale

Sta facendo discutere la Proposta di Legge Disposizioni per il riconoscimento e la promozione della mototerapia, presentata già nell’estate del 2021 e approvata recentemente dalla Camera, in attesa ora di passare all’esame del Senato. Al di là delle più facili battute su “quanto possano essere necessarie le moto per i bambini in ospedale”, più consistenti sembrano, ad esempio, le critiche al testo mosse su queste stesse pagine da un’Associazione come l’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori di perSone con Autismo), secondo la quale, come è stato scritto, «non sembra questo il bisogno più urgente per garantire ai nostri figli diritti e cure necessarie».
Torneremo in seguito su quella che ci sembra la critica più fondata, ma al momento è forse il caso di vedere cosa esattamente contenga quella Proposta di Legge.

Il testo approvato cita all’articolo 1 la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità – che, non dimentichiamolo mai, è ormai da quindici anni la Legge 18/09 dello Stato Italiano – facendo riferimento in particolare agli articoli 25 (Salute) e 26 (Abilitazione e riabilitazione) della stessa.
In questo caso il pensiero è con tutta probabilità rivolto soprattutto all’apertura dell’articolo 26, ove si scrive che gli Stati devono «permettere alle persone con disabilità di ottenere e conservare la massima autonomia, le piene facoltà fisiche, mentali, sociali e professionali, ed il pieno inserimento e partecipazione in tutti gli ambiti della vita».
Non viene invece citato, e sarebbe stato opportuno farlo, l’articolo 30 (Partecipazione alla vita culturale e ricreativa, agli svaghi ed allo sport) della Convenzione il quale prescrive tra l’altro che «le persone con disabilità abbiano la possibilità di organizzare, sviluppare e partecipare ad attività sportive e ricreative specifiche».
Più di questo, infatti, credo si dovrebbe parlare, anziché di «mototerapia intesa come terapia complementare», ossia di un aspetto prevalentemente ludico-ricreativo che dia sollievo alle persone con disabilità ospedalizzate e in particolare a bambini/bambine e ragazzi/ragazze.

È proprio questo, del resto, anche lo spirito con cui Vanni Oddera, considerato a buona ragione come il “padre” della “mototerapia” nel nostro Paese, porta avanti ormai da anni il proprio progetto, che è appunto quello di coinvolgere bambini/bambine e ragazzi/ragazze con disabilità i quali, in sella a moto, quad o mimimoto, possano godere di un’esperienza emozionante, all’insegna del puro divertimento. Una pratica diffusasi a macchia d’olio all’estero e anche in Italia e rivelatasi realmente come una positiva esperienza per coloro che vi partecipano, ma anche per i loro familiari e per chi si mette a disposizione del progetto.
Puro divertimento, dunque, e portare tale pratica nelle strutture sanitarie, come già detto, può significare sollievo. In questo aspetto l’idea del Progetto di Legge di cui sopra può essere positiva, ovvero dare la possibilità ai piccoli pazienti, nel quadro di un’esperienza del genere, di non essere più solo “malati”, ma persone che possono trascorrere un momento lieto anche in un luogo di cure. In altre parole, attività ludico-ricreative utili a distrarre e intrattenere, magari a risollevare il morale, ma non da considerare come una terapia. Privilegiare tale aspetto, senza più parlare esplicitamente di “terapia complementare”, potrebbe pertanto essere utile in fase di approvazione definitiva del provvedimento.
Nell’articolo 2 del testo si scrive che «entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge», la proposta necessaria ad «adottare le linee guida per garantire una uniforme regolamentazione e implementazione sul territorio nazionale» debba arrivare «dall’Autorità politica delegata in materia di disabilità»: questo fa sperare che in tale sede si possa intervenire correttamente nel senso sopra indicato.

E concludo tornando a una delle questioni sottolineate dall’ANGSA, un tema che purtroppo riguarda altre norme approvate in questi anni, ovvero la questione di quali fondi verranno utilizzati per finanziare quelle iniziative presso le strutture sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali. L’articolo 4 del testo approvato prevede infatti, esplicitamente, «la clausola di invarianza degli oneri finanziari, disponendo che dall’attuazione della legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e che le amministrazioni interessate provvedono alle attività previste dalla presente legge nell’àmbito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente».
A questo punto viene da chiedersi: i fondi verranno forse reperiti tagliando risorse da servizi essenziali per la Sanità, come è stato scritto? Una prospettiva, questa, che non ci può certo trovare favorevoli.
Anche su questo punto, quindi, in sede di approvazione definitiva della norma, sarebbe necessario fornire indicazioni più precise.

Presidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap); componente del Consiglio di Presidenza del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro).

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