La buona Sanità che fa notizia (sperando diventi la normalità)

«I modi per arginare il problema di un’adeguata accoglienza delle persone con disabilità da parte delle strutture sanitarie esistono – scrive Stefania Delendati, raccontando una sua positiva esperienza in questo àmbito -, ma vorrei, e come me sono certa tanti altri, arrivasse il giorno in cui non ci sarà più bisogno di scrivere articoli come questo, nel quale si parla di buona Sanità che accoglie l’unicità delle persone come di un fatto eccezionale. Deve diventare la prassi che non fa più notizia, per tutti in tutte le Regioni e solo quel giorno avremo vinto un’importante battaglia di civiltà»

Donna con disabilità fotografata di spalle in una struttura sanitaria (foto di Annalisa Benedetti)

(Foto di Annalisa Benedetti)

Le buone notizie non fanno notizia. Siamo bombardati da un’informazione catastrofista che dipinge il mondo e i suoi abitanti come senz’anima, senza speranza di miglioramento. Può essere in parte condivisibile (purtroppo), visti gli scenari mondiali, ma c’è ancora del bello intorno a noi ed è giusto, oltre che fonte di soddisfazione, parlarne.
È una “boccata di ossigeno” quella che vorrei dare, riguardante l’assistenza sanitaria destinata alle persone cosiddette “fragili”, una positiva esperienza personale, inaspettata, che mi ha fatto capire una volta di più come l’ascolto delle esigenze dei pazienti, la sensibilità degli operatori e la messa in rete di professionalità qualificate sia la strada da intraprendere per l’inclusione anche in àmbito ospedaliero e socio-assistenziale.

Veniamo ai fatti. Dovevo fare un’ecografia addominale, un controllo rimandato per anni, a causa delle difficoltà logistiche nel recarmi in un ambulatorio. Ho già parlato su queste pagine del disagio per le persone con disabilità nell’esecuzione di semplici esami, gli spazi spesso angusti, i lettini scomodi sia per chi deve fare l’esame che per l’accompagnatore, le apparecchiature inaccessibili per i pazienti che si muovono su una sedia a rotelle o con altri tipi di problemi motòri, a volte la scarsa preparazione degli operatori addetti, oberati di lavoro, poco inclini a spendere qualche minuto in più per comprendere bisogni e timori che escono dagli standard.
Tutto questo ho spiegato alla Dottoressa, dopo che mi ha consigliato di rompere gli indugi e fare ’sta benedetta ecografia non più rimandabile. Mentre argomentavo le mie perplessità, un po’ temevo di non essere compresa, invece ho trovato una persona che si è messa nei miei panni, con empatia. Le ho detto di avere cercato invano in diverse strutture, pubbliche e private, un servizio in grado di eseguire questo esame a domicilio. So che è possibile, quando ho avuto il Covid un medico dell’unità predisposta dall’ASL del mio territorio, Parma, per combattere la pandemia, era venuto a casa per un’eco ai polmoni, non c’era modo di fare altrettanto per un altro distretto corporeo?
La Dottoressa si è messa con pazienza al telefono, ha spiegato a diversi colleghi la necessità non soltanto mia, ma anche di altri suoi pazienti, un gruppo di persone del Parmense con disabilità causata da patologie rare, che preferibilmente devono eseguire alcuni controlli nella loro abitazione per le difficoltà di spostamento. Infine è riuscita nell’intento e dopo una settimana ho ricevuto la visita dell’équipe di una delle Unità Mobili Multidisciplinari dell’Ospedale Maggiore di Parma, operatori gentili, disponibili, preparati che mi hanno permesso di eseguire l’ecografia sdraiata sul letto, con sollievo mio e di mia mamma, che altrimenti avrebbe dovuto accompagnarmi in un ambulatorio, memore, lei come me, della recente fatica per fare la MOC [mineralometria ossea computerizzata, N.d.R.] (ma per quella non c’era soluzione, è un tipo di esame che in nessun caso si può fare a domicilio).

Le Unità Mobili Multidisciplinari (UMM) di Parma non sono un servizio dedicato in maniera specifica alle persone con disabilità, si rivolgono a tutti coloro che hanno una ridotta mobilità e particolari condizioni cliniche, gli utenti principali sono le persone anziane che vivono nelle strutture residenziali oppure i pazienti dimessi da poco che non si sono ancora ripresi pienamente e devono eseguire degli accertamenti. Sono nate nel 2018 e a partire dal 2020, con l’emergenza provocata dal Covid, hanno dimostrato la loro utilità, non soltanto nell’alleviare il disagio dei pazienti, ma anche nel ridurre la congestione degli ospedali con attività assistenziali che possono essere svolte al domicilio.
Nel tempo le UMM sono diventate dei piccoli “ospedali in automobile” che possono contare su specialisti che vanno, a seconda delle necessità, dallo pneumologo all’infettivologo, dall’internista al gastroenterologo; inoltre possono eseguire a casa dei pazienti i principali esami di laboratorio con apparecchiature portatili. È un esempio di medicina territoriale e rientra in quella riorganizzazione sanitaria di cui tanto si parla, quella attuata per avvicinare la medicina al cittadino e ai suoi bisogni.
Mi tornano in mente le fatiche che tante volte ho dovuto sopportare, sono consapevole che non saranno finite, ma almeno ora so che per alcune prestazioni posso stare più tranquilla. Se penso alla gentilezza degli operatori che sono venuti da me, non posso non ricordare esperienze opposte, quando sono stata trattata come un “sacco di patate” da chi non voleva ascoltare come avevo necessità di essere spostata, provocandomi dolore fisico che poi è passato, ma anche una fobia che non se ne andrà mai. Mi ricordo anche quanto mi ha raccontato Luisella Bosisio Fazzi, rappresentante italiana presso l’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, quando nel 2002, dopo sei ore in pronto soccorso con il figlio, ragazzo con disabilità fisiche e intellettive, infine portato in sala operatoria, «suggerisco di non lasciarlo solo sul lettino operatorio perché non ha senso di equilibrio. Niente da fare: “Ci pensiamo noi”. Diffidente metto un piede nella porta della camera operatoria e vedo che sta cadendo. Mi precipito e lo recupero prima che tocchi terra».

Sono passati più di vent’anni, ma non è preistoria, purtroppo, lo dimostra quanto accaduto recentemente a Raffaello Belli, testimoniato sul sito dell’AVI Toscana (Associazione Vita Indipendente Toscana) e citato anche in Superando, per rilanciare l’importanza di costruire percorsi clinico-assistenziali e di presa in carico personalizzati.
Le Unità Mobili Multidisciplinari possono essere una delle vie da seguire, oltre naturalmente al rilancio del progetto DAMA (Disabled Advanced Medical Assistance, ovvero “Assistenza medica avanzata alle persone con disabilità”), attivo in Italia del 2000, ma in maniera disuguale sul territorio, come rilevato da Salvatore Nocera in una sua recente analisi. Alla base di tutto, la formazione degli operatori che devono essere in grado di interagire con i diversi tipi di disabilità, perché le barriere culturali, comunicative e attitudinali sono le prime a dover essere superate, in quanto da esse scaturiscono gli ostacoli concreti, fisici e architettonici.
In occasione della divulgazione online del questionario per valutare il livello di accesso allo screening, alla diagnosi e ai trattamenti oncologici per le persone con disabilità in Europa [tale questionario è ancora aperto alla compilazione fino all’8 ottobre ed è disponibile a questo e a questo link, rispettivamente in versione standard e in versione facile da leggere e da comprendere, N.d.R.], Bosisio Fazzi ha condotto una ricerca per capire a che punto sia l’accessibilità alle cure ospedaliere e all’assistenza sanitaria nei Paesi dell’Unione Europea, dalla quale è emerso che vi sono ritardi significativi nell’accesso ai servizi sanitari, in particolare alle cure specialistiche e agli esami diagnostici.
Secondo un rapporto del 2016 elaborato dall’EPF (European Patients’ Forum), sull’accesso alle cure sanitarie, la maggior parte dei pazienti con disabilità e dei caregiver riferisce di avere subìto un’esperienza di stigmatizzazione durante la ricerca o la ricezione di assistenza sanitaria, non facilmente accessibile secondo il 56,75% degli intervistati. Da queste evidenze si è calcolato che le persone con disabilità hanno quattro volte più probabilità degli altri cittadini di avere bisogni sanitari insoddisfatti.

È tempo di rimboccarsi le maniche, i modi per arginare questo problema esistono, la mia recente positiva esperienza ne è la dimostrazione. Vorrei, e come me sono certa tanti altri, arrivasse presto il giorno in cui non ci sarà più bisogno di scrivere articoli come questo, nel quale si parla di buona Sanità che accoglie l’unicità delle persone come di un fatto eccezionale. Deve diventare la prassi che non fa più notizia, per tutti in tutte le Regioni e solo quel giorno avremo vinto un’importante battaglia di civiltà.
Anche nel settore sanitario vale l’aforisma del nostro caro Antonio Giuseppe Malafarina: «Inclusione è una parola magica. Quando esiste svanisce».

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