«Credo che anche per le persone laiche – scrive tra l’altro Salvatore Nocera – il cambiamento di orientamento teologico e pastorale ecclesiale in atto nei confronti delle persone con disabilità possa essere visto come un cambiamento culturale e sociale e che quindi, anche per loro, debba essere considerato, sociologicamente, come un passo avanti nella crescita di consapevolezza della sempre maggiore dignità umana delle stesse persone con disabilità»
Ho letto con molto interesse in Superando il più recente contributo di riflessione proposto da Angelo Fasani, intitolato L’identica umanità di tutti richiede l’inclusione di tutti, relativo ad un commento alla teoria teologica del professor Justin Glyn su come le persone con disabilità, pur con le loro minorazioni, debbano considerarsi comprese anch’esse nell’affermazione del Creatore, contenuta nella Bibbia, «facciamo l’uomo a nostra immagine».
Glyn, approfondendo un filone teologico avviatosi durante il genocidio nazista nei confronti degli Ebrei, sviluppa la tesi affascinante che le persone con disabilità si identifichino con Gesù crocifisso, figlio di Dio e quindi rientrino nell’affermazione di Dio nella Creazione, sopra riportata.
In un mio articolo precedente e già nel volume A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità, curato da Alberto Fontana e Giovanni Merlo (ripresa in italiano di “Us” not “Them”. Disability and Catholic Theology and Social Teaching, “Noi’, non ‘loro’. Disabilità, teologia e dottrina sociale cattolica” di Justin Glyn), mi ero permesso di intervenire sostenendo che teologicamente era ancor meglio completare tale identificazione anche in Gesù risorto. Infatti, purtroppo, nella Pastorale dei secoli scorsi, sino al Concilio Ecumenico Vaticano II, l’identificazione delle persone emarginate come quelle con disabilità con Gesù crocifisso aveva significato un’educazione religiosa di queste all’accettazione delle sofferenze fisiche e psicologiche che si incontrano a causa delle proprie minorazioni. Anzi, talvolta tale educazione religiosa era giunta alla sublimazione di esse, con l’invito ad accettare tali sofferenze, perché, tramite queste, le persone con disabilità avrebbero contribuito alla redenzione del mondo operata dalle sofferenze del Crocifisso.
A mio sommesso avviso, questa forma di catechesi, fino a quando è stata operata, istillava nelle persone con disabilità un’accettazione passiva delle sofferenze e non portava ad un’accettazione attiva; cioè portava tali persone a sentirsi come “soggetti passivi” nella Chiesa e nella società civile, soddisfatti del loro stato, destinatari di pietismo caritatevole; il Concilio Vaticano II, invece, ha dato delle persone emarginate, comprese quelle con disabilità, una visione attiva nella Chiesa e nella comunità civile, invitandole a divenire soggetti attivi, ciascuno secondo le proprie potenzialità, sviluppate dalla riabilitazione, dall’istruzione e, ove possibile, dal lavoro.
Conseguentemente, l’educazione pastorale e sociale delle persone senza disabilità è stata orientata all’impegno per collaborare all’inclusione delle persone con disabilità, come persone attive nelle comunità ecclesiali e nella società civile, collaborando, come volontari e professionisti, al raggiungimento di tale fine.
Quanto detto è potuto avvenire, ritengo, in forza di una più attenta rilettura del famoso brano del Vangelo di Matteo relativo al giudizio finale (Matteo, 25, 31-46), passo in cui Gesù risorto dice che quanto viene fatto «ai più piccoli» dei suoi fratelli è stato fatto a lui. Qui c’è un’identificazione piena delle persone emarginate, come pure quelle con disabilità, a Gesù risorto, addirittura, secondo la narrazione evangelica, come “giudice glorioso”.
Ovviamente quanto mi sono permesso di dire vale per i cristiani credenti in Gesù figlio di Dio. Però anche per i laici questo cambiamento di orientamento teologico e pastorale ecclesiale può essere visto come un cambiamento culturale e sociale e quindi, anche per loro, dev’essere considerato, sociologicamente, come un passo avanti nella crescita di consapevolezza della sempre maggiore dignità umana delle persone con disabilità.
Certo, come osserva Angelo Fasani, ancora nella prassi questi orientamenti fanno fatica a realizzarsi, anche, a mio avviso, per il peso che secoli di quella pastorale e cultura religiosa grava ancora sulla mentalità comune. Penso però che con questi approfondimenti teologici e culturali anche le prassi pastorali stiano lentamente mutando, come sta avvenendo con maggiore rapidità nella società civile.
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