Parlano chiaro le recenti indicazioni della Sottocommissione ONU della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti: il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, attualmente presieduto da Riccardo Turrini Vita, dovrà riprendere il monitoraggio dei luoghi sanitari e sociali che ospitano persone con disabilità, anziani e minori, inserendoli nella propria Relazione annuale al Parlamento. Vediamo come e perché
Tra le altre ottime attività, un contributo importante fornito da Mauro Palma, precedente presidente dell’Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, è stato quello di allargare il campo del rispetto dei diritti umani, non solo alle carceri, tradizionale campo di azione, ma anche a istituti a carattere sociale e sanitario, come quello dell’accoglienza delle persone con disabilità e degli anziani, oltre a quello dei migranti ospitati in luoghi in attesa di accettazione delle loro richieste di asilo.
Va qui ricordato che nel 2016 il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che monitora l’applicazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ha chiesto all’Italia, in occasione delle Osservazioni Conclusive al relativo rapporto presentato dal nostro Paese e nell’àmbito dell’articolo 15 della Convenzione stessa (Diritto di non essere sottoposto a tortura, a pene o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti) che il «MNP [Meccanismo Nazionale di Prevenzione] visiti immediatamente gli istituti psichiatrici o altre strutture residenziali per persone con disabilità, specialmente quelle con disabilità intellettive o psicosociali, e riferisca sulla loro condizione» (punto 42 delle Osservazioni Conclusive).
Proprio perché il Garante è il meccanismo di monitoraggio italiano, Mauro Palma attivò pertanto un’azione di visita di quegli istituti e di rapportistica nazionale nelle sue Relazioni al Parlamento. In tal modo è stato posto in evidenza il numero di persone che sono spesso segregate in istituti a carattere sanitario e sociale (RSA e RSD, ossia residenze sociali per anziani e persone con disabilità e case famiglia), dove le libertà individuali e i diritti umani vengono spesso ignorati.
Le recenti vicende di violenza di operatori verso le persone con disabilità in questi luoghi hanno rilanciato la frequente inadeguatezza della soluzione degli istituti, come è avvenuto ad esempio nel CEM di Roma, gestito dalla Croce Rossa.
Abbiamo così saputo – attraverso un’apposita anagrafe elaborata dallo staff del Garante, spesso in contrasto con i dati ISTAT – che in Italia (2019) erano 284.781 le persone con disabilità istituzionalizzate in 12.458 strutture (2018) (81,6% anziani non autosufficienti), 78.926 (27,7%) in strutture con oltre 100 posti letto.
Ebbene, delle 284.781 persone con disabilità in istituto, 3.131 erano minori con disabilità e disturbi mentali dell’età evolutiva; 49.025 adulti con disabilità e patologia psichiatrica; 232.625 anziani non autosufficienti (nell’81,6% dei casi, come già sottolineato, si trattava di anziani non autosufficienti con livello di assistenza sanitaria medio-alto).
Nel 98,3% dei casi, sottolineava poi il rapporto del Garante del 2022, erano ospiti di strutture che non riproducevano le condizioni di vita familiari e avrebbero dunque potuto risultare come potenzialmente segreganti. Allo stesso modo, il 93,2% dei 32.648 posti letto rivolti alle persone con disabilità risultavano collocati in strutture che non riproducevano l’ambiente della casa familiare.
Il tema è stato drammaticamente rilanciato durante la pandemia, dove una ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità ha evidenziato che nei primi tre mesi della pandemia da Covid, negli istituti per anziani è morto il 42,2% dei ricoverati a causa del coronavirus. Lo stesso direttore regionale europeo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Hans Henri P. Kluge, ha denunciato che la metà dei morti da coronavirus in Europa si è avuta proprio nelle residenze di lunga degenza. Né ad oggi si conoscono ancora i dati durante la pandemia relativi agli istituti che accoglievano persone con disabilità.
Non è un caso che sia l’Ufficio del Garante nel suo rapporto alternativo al rapporto italiano sulla Convenzione ONU contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (CAT), sia il rapporto alternativo elaborato dal FID (Forum Italiano sulla Disabilità) abbiano denunciato i trattamenti crudeli, inumani e degradanti cui erano state sottoposte durante la pandemia le persone ospitate nelle residenze di lunga degenza (anziani, minori e persone con disabilità).
È proprio dalle considerazioni che il welfare sostanzialmente “di protezione”, che oggi interviene in quasi tutti i Paesi economicamente sviluppati, non ha protetto affatto le persone con disabilità e le loro famiglie, che si è aperta una discussione da cui è stata definita la Legge Delega 227/21 in materia di disabilità, prevista dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) e voluta dalla precedente ministra per le Disabilità Erika Stefani, una norma che sta riformando il nostro welfare in direzione dell’applicazione della Convenzione ONU nel nostro Paese.
Il 4 luglio scorso la Sottocommissione ONU della citata Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti ha emanato il 1° Commento Generale sull’articolo 4 del Protocollo Opzionale (Posti di privazione della libertà), ratificato dall’Italia il 3 aprile 2013.
Il Protocollo Opzionale definisce come «privazione della libertà» «ogni forma di detenzione o reclusione o il collocamento di una persona in un luogo pubblico o privato, ambiente detentivo dal quale la persona non è autorizzata a uscire a piacimento per ordine di un organo giudiziario, autorità amministrativa o altra». Questa definizione riconosce specificamente che tale privazione della libertà può verificarsi «sia in contesti pubblici che privati».
Partendo dunque da questi elementi, il documento ha definito i luoghi dove il meccanismo nazionale di monitoraggio, cioè il Garante dei diritti delle persone private della libertà, deve visitare per verificare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Tali luoghi – cui la sotto commissione ha dato un’interpretazione la più estensiva possibile – sono «prigioni, ospedali, scuole e istituzioni impegnate nella cura di bambini, persone anziane o persone con disabilità, includendo persone con disabilità intellettive o psicosociali, servizi militari e altre istituzioni e contesti».
«La Sottocommissione – si legge ancora – rileva che si presume che molte persone con disabilità siano incapaci di vivere in modo indipendente, o che il sostegno per vivere in modo indipendente non sia disponibile o sia vincolato a specifiche modalità di vita. Sebbene possa non esistere alcun ordinamento giuridico o amministrativo che confini tali persone in una determinata struttura, la mancanza di sostegno le costringe a rimanervi in situazioni di vita che le privano della libertà e possono sottoporle a pratiche dannose. Questa forma di privazione della libertà specifica per disabilità può verificarsi nelle case familiari e in accordi istituzionali, compresi istituti di assistenza sociale, istituti psichiatrici, ospedali a lunga degenza, case di cura, reparti sicuri per la demenza, collegi speciali, bambini istituti di assistenza sociale, case famiglia, centri di riabilitazione, strutture psichiatriche forensi, ostelli per albini, lebbrosari, comunità religiose, case famiglia per bambini e campi di preghiera».
Anche il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, in relazione agli articoli 14 e 15 della Convenzione ha riscontrato che «la pratica di collocare le persone con disabilità in strutture residenziali con decisioni senza consenso specifico o con il consenso di un sostituto del decisore porta alla privazione arbitraria della libertà». Pertanto «è importante che i meccanismi di prevenzione nazionali e la Sottocommissione ne accertino la presenza di soluzioni ragionevoli di sistemazione e sostegno per le persone con disabilità. Se non sono disponibili soluzioni e supporto ragionevoli, il luogo, la struttura o l’ambiente dovrebbero essere considerati come luogo di privazione della libertà». E lo stesso vale per quei lughi dove la persona non è libera di uscirne quando vuole.
Altre indicazioni riguardano i minori e gli anziani. Su questi ultimi il gruppo di esperti della Sottocommissione ha espresso la necessità che gli Stati Parte della Convenzione CAT considerino «tre situazioni specifiche in cui le persone anziane possono essere private della libertà e per le quali lo Stato detiene direttamente o indirettamente una responsabilità basata sui suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale sui diritti umani: (a) quando hanno commesso crimini o illeciti legali; (b) quando sono stati detenuti a causa della loro stato migratorio; (c) quando sono sotto il controllo e la supervisione di alcuni istituti o accordi di assistenza, compresi quelli forniti attraverso la tutela legale da parte dei familiari».
Nel documento si prende atto che «un approccio globale alla definizione del termine “luoghi di privazione di libertà” è stata adottata anche dai meccanismi regionali per i diritti umani», che la Sottocommissione auspica possano tenerne conto nella definizione di altri nuovi luoghi di privazione delle libertà.
Infine, «con il presente Commento Generale, la Sottocommissione si esprime in maniera autoritativa sull’effettiva attuazione del Protocollo Opzionale, per chiarire gli obblighi degli Stati Parte e i mandati della Sottocommissione e i meccanismi di prevenzione nazionale di cui all’articolo 4 del Protocollo Facoltativo».
Risulta dunque del tutto chiaro, da questa indicazione, che il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, presieduto da Riccardo Turrini Vita, dovrà riprendere il monitoraggio dei luoghi sanitari e sociali che ospitano persone con disabilità, anziani e minori, inserendoli nella propria Relazione annuale al Parlamento.
*Membro del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International).
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