«Credo che la vita indipendente – scrive tra l’altro Matteo Menozzi –, per essere reale, dovrebbe poggiare su più gambe stabili, a partire da un lavoro che sia il più soddisfacente possibile, che non porti discriminazioni e che sia retibuito in modo accettabile, per poterti far sentire incluso e poter badare a te stesso e alle tue spese anche senza pensione»
Ho letto in Superando i contributi di Liana Cappato (Cosa piace fare a una persona? Questa dev’essere la domanda!) e di Enrichetta Alimena (Lavoro e disabilità: una chimera anche per chi studia e ha un’alta formazione) e vorrei portare la mia esperienza da utente di un progetto di vita fatto con il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza).
Ho 37 anni, sono di Parma, sono laureato in Relazioni Internazionali e mi sto laureando in Giornalismo; ho una rara malattia agli occhi che mi permette di vedere “come un cavallo”, e sono troppo poco cieco per prendere l’ ipovedenza. Riesco a lavorare bene con i computer e ho più di 3.000 ore di corsi di informatica alle spalle fatti tra il 2018 e il 2022. Adesso sto lavorando in una media azienda di Bologna in smart totale e mi sta piacendo; peccato che il contratto sia fino a giugno. Ho lavorato da informatico per l’ANFFAS, ma è stato uno stillicidio.
Credo che la vita indipendente dovrebbe in realtà poggiare su più gambe stabili, vale a dire:
° In primis un lavoro che ti dia il diritto, se lo mantieni per tanto tempo, ad essere appunto stabile e ad avere quindi più possibilità di sottoscrivere ad esempio un mutuo o di avere la possibilità di un contratto d’affitto, e magari anche di sottoscrivere un’assicurazione sulla vita e sugli infortuni come si dice anche nell’articolo 25 (Salute) della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
° Un’integrazione che significhi poterti vedere con le stesse possibilità di sviluppo umano di una persona senza disabilità;
° La libertà di fare ciò che si vuole, ovviamente nei ranghi della legge, e parlo di sei liberta essenziali, che sono: la libertà di programmarsi la giornata e la serata; la libertà di rappresentarsi davanti alla legge; la libertà di impresa; la libertà di movimento; la libertà di rappresentare/essere rappresentato/a da chi si vuole; la libertà di vivere con chi e dove si vuole, come sostiene l’articolo 19 (Vita indipendente ed inclusione nella società) della Convenzione ONU e che a mio parere nei progetti di vita non viene rispettato.
Ebbene, siamo sicuri che i progetti di vita ti facciano avere tutte queste specifiche della vita indipendente? Per ovviare a problemi come il mio si ricorre ad agenti informatici o ad agenti facilitanti, ma siamo certi che per tutte le persone con un certo problema come il mio vadano bene gli stessi ausili? La risposta è no, perché non si fa una reale valutazione di impatto sullo stile di vita e la volontà di integrazione della persona con disabilità, e ritengo che non lo si farà realmente nemmeno con il Decreto Legislativo 62/24 [“Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato”, N.d.R.].
Basandomi sulla mia esperienza, dico che per me quegli ausili non sono sufficienti, in quanto, non avendo la patente, ho problemi anche a spostarmi con mezzi pubblici, nel salire e scendere, perché non percependo bene la profondità, non vedo lo scalino del bus e rischio di cadere. Con dei pesi come le borse della spesa avrei poi più rischio ancora di cadere, scendendo dal bus, perché in un certo senso mi oscurano la visuale e quindi rischierei di farmi del male o di fare del male agli altri.
Mi si dice che ci sono Uber, i taxi o altri servizi, sì, è vero, ma costano, e non c’è nessuna forma di abbonamento o prezzo calmierato per le persone con disabilità, mentre gli altri servizi sono ad appanaggio delle persone che vivono in città e i servizi comunali sono solo per chi ha una disabilità ai sensi dell’articolo 3, comma 3 della Legge 104/92, mentre io, essendo riferito all’articolo 3, comma 1, non posso usufruirne.
Questo è un vulnus per la libertà di movimento e la libertà di scegliere dove vivere; dovrei per forza vivere in città, per avere tutti i servizi e la libertà di movimento, e quindi niente libertà di scelta sul luogo in cui vivere!
Altra cosa, sempre parlando di progetto di vita, è la standardizzazione del progetto stesso, dove tu sei una pedina e vieni “incasellato” da terzi, con altre persone che non conosci o che anche conosci, ma senza avere nulla a che vedere con le loro problematiche patologie. Non riesci quindi ad essere umanamente coinvolto nel progetto, e magari, anziché farti integrare, ti fa sentire ancor più patologia che persona.
L’idea che ti fai del progetto dipende molto da come viene gestito e il mio è stato gestito assai male per vari motivi (incontri schedulati e avvenuti, però cancellati dalla memoria; progetti che dovevano essere cambiati nel tempo di cui dovevo ricevere effettiva comunicazione, ciò che però non è mai avvenuto; valutazioni basate su incontri mai avvenuti).
Ritornando al tema del lavoro, esso deve essere il più soddisfacente possibile e non portare a discriminazioni o, peggio ancora, a farti sentire segregato, perché lavori solo ed esclusivamente con la tua categoria di persone. Oltretutto il lavoro deve darti anche una paga accettabile, per poterti far sentire incluso e poter badare a te stesso e alle tue spese anche senza pensione.
Tra i problemi del collegamento tra domanda e offerta di lavoro, vi è che molte volte non ti fanno fare esperienza, cosicché se ti rivolgi al pubblico o al privato (LinkedIn o agenzie per il lavoro), più vai avanti con l’età, facendo poca esperienza, più sei penalizzato anche in fase di incentivazione che dà lo Stato per le aziende. In poche parole, se sei trentacinquenne o quarantenne senza esperienza, anche se hai molto background di studio e se sei senza aiuti contributivi per le aziende per assumerti, non vedi futuro, appunto perché non hai fatto esperienza.
In teoria ci dovrebbero essere fondi per l’autoimprenditorialità della persona con disabilità, ma in realtà la maggior parte dei soldi sono destinati allo sviluppo di cooperative o imprese sociali e per la persona con disabilità che vuol fare impresa è avvero difficile.
Liana Cappato, che su queste pagine ha scritto che l’idea che il figlio trascorra molte ore nella sua cameretta le dà i brividi, ha ragione, anche perché ho provato io stesso sulla ma pelle la sensazione di stare per ore, giorni, mesi nella mia cameretta senza un vero obiettivo, a vedere i tuoi amici “normodotati” riuscire nel lavoro e farsi pure una famiglia, mentre tu non ci riesci perché ti danno solo occasioni di corsi segreganti, dove puoi imparare qualcosa, ma che non ti servirà a nulla perché una volta fuori dal non ti si trova un lavoro inerente al corso, ti si dà magari una borsa lavoro. E ti può anche essere impedito di fare il servizio civile, da chi te l’ha proposto, perché stai facendo l’università; un servizio civile che ti sarebbe stato utile per far vedere la tua etica del lavoro e per fare un’esperienza significativa in un luogo che può essere non segregante.
Da persona con disabilità, devi abilitarti o riabilitarti, ma se questa riabilitazione dura a vita, lo spread di diversità si ingrandisce e non riuscirai mai a raggiungere i tuoi diritti, quello ad una vita integrata, con soldi tuoi, con cui toglierti i capricci e, chi lo può dire, raggiungere anche la sicurezza economica per farsi una famiglia.
Se c’è da vivere con routine giornalmente impostate e non ti puoi programmare le serate, perché devi rispettare certi orari e lavorare “segregati”, allora non è vita indipendente, ma un’imitazione posticcia di essa.
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