La Chiesa non si governa coi piedi, ma con la testa!

di Salvatore Nocera
«A coloro i quali volevano che si dimettesse per il fatto di muoversi in carrozzina, il Pontefice fece sapere indirettamente che “la Chiesa non si governa coi piedi, ma con la testa!”»: lo scrive Salvatore Nocera, ricordando così Papa Francesco, in questa sua riflessione che prende spunto da un precedente intervento di Donata Scannavini, «sulla difficoltà che abbiamo noi persone con disabilità ad essere considerate nelle nostre comunità di fede come “soggetti attivi”»
Papa Francesco in occasione di una Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità
Papa Francesco in carrozzina insieme a numerose persone con disabilità e ai loro familiari, in occasione di una Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità

Ho letto con piacere in Superando il testo Le riflessioni di una parrocchiana (con disabilità) di Donata Scannavini sulla difficoltà che abbiamo noi persone con disabilità ad essere considerate nelle nostre comunità di fede come “soggetti attivi”, mentre siamo troppo spesso considerati come “oggetto” solo di attenzione e di aiuto, o addirittura di “pietismo compassionevole”. Condivido questo suo giudizio per la maggiore esperienza di vita fatta da me cieco, che ho 87 anni.
Mi chiedo dunque a cosa sia dovuto questo atteggiamento “paternalistico”. Già la signora Donata lo ha in parte evidenziato, parlando cioè di una visione distorta dell’interpretazione teologica della nostra sofferenza che contribuirebbe alla salvezza del mondo in quanto unita a quelle di Gesù sulla croce.

Penso però che ci sia anche di più, sia a livello di influenza di mentalità laica che religiosa. Secondo una diffusa mentalità laica, infatti, noi persone “con disabilità” non siamo in grado di fare quello che fanno le persone “abili”. È quindi frutto dell’abilismo che non possiamo essere solitamente considerati “abili” alla pari degli altri e che veniamo quindi conseguentemente visti come oggetto di attenzione e non come soggetti nella società civile, oltre che nelle comunità religiose.
A livello religioso la tesi pseudo-teologica, riportata dalla signora Donata, cioè la nostra partecipazione alla salvezza del mondo con le nostre sofferenze, sa un po’ molto di “premio consolatorio”. Si badi bene, questa era una tesi teologica dell’Ottocento, molto accreditata in ambienti ecclesiastici; però oggi, dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, non credo si possa più sostenere.
A parte l’affermazione critica rivoltami da amici non credenti, secondo i quali noi credenti vorremmo le persone con disabilità “sempre sofferenti”, il discorso si fa più serio, guardando anche all’impostazione del ragionamento del professor Justin Glyn nella traduzione italiana del suo bel libro “Us” not “Them”. Disability and Catholic Theology and Social Teaching, intitolata A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità, che giustamente Giovanni Merlo con la Federazione LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità) sta da tempo divulgando ovunque, anche in prestigiosi convegni.
Il professor Glyn, che è docente universitario di Diritto Canonico, persona cieca, di fronte all’affermazione della Bibbia ebraica in cui si narra che Dio disse «creiamo l’uomo a nostra immagine», critica la tesi secondo la quale, se Dio è perfettissimo, come avrebbe fatto a creare anche persone con disabilità, che non sono perfette? Egli fa dunque presente che Gesù – il quale secondo la fede cristiana è Dio – fu crocifisso e quindi l’affermazione della creazione non è contraddittoria, poiché c’è un uomo ad immagine di Dio creatore, senza disabilità e ci sono persone con disabilità che sono pur esse ad immagine di Dio sofferente in croce.

Invero suppongo che il professor Glyn si rifaccia all’affermazione di Dietrich Bonhoeffer nel campo di sterminio nazista dove era stato deportato dopo il fallito attentato a Hitler. Ad un suo compagno di prigionia, che di fronte a tutte quelle sofferenze, gli chiese «dov’è Dio!?», egli rispose infatti, indicandogli un giovane impiccato ad una forca, «eccolo là», indicandolo come Gesù crocifisso. Certo, questa immagine è perfetta in casi estremi come questi, ma non penso sia pastoralmente, da sola, proponibile per tutta la vita quotidiana delle persone con disabilità.
Durante il primo convegno organizzato dalla LEDHA sul libro del professor Glyn, mi ero rifatto ad un mio intervento svolto nel 1987 a nome del MAC (Movimento Apostolico Ciechi), in occasione del Sinodo dei Vescovi sui laici, in cui sostenevo che limitare la somiglianza di noi persone con disabilità solo a Dio sofferente è una visione teologica incompleta, poiché , secondo la fede cristiana, Gesù, morto in croce, è poi risuscitato; quindi occorrerebbe dare una visione più completa di Dio, secondo il Cristianesimo. E a questo proposito, c’è un testo biblico che mi sembra più aderente alla visione del Dio cristiano, morto e risorto, per parlare delle persone con disabilità, pur esse «ad immagine di Dio».
Mi riferisco al Vangelo secondo Matteo al capitolo 25 (versetti da 31 a 47), relativi al “giudizio finale”. In questo celebre brano , Gesù, come giudice finale, dopo avere enumerato atti di solidarietà a favore di persone  in gravissime difficoltà, dice «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Qui è Gesù, risorto, glorioso, non sofferente, anche se è stato crocifisso ed è morto, che riferisce a sé i destinatari (sofferenti) di gesti di solidarietà. Quindi essi sono considerati “a sua immagine”.
Noi cattolici abbiamo definito questi gesti come “opere di misericordia” con un’accentuazione pietistica e caritatevole; questa è stata appunto la sensibilità cattolica sino al citato Concilio Ecumenico Vaticano II; ma ormai, dopo che il Concilio nella Costituzione Pastorale Sulla Chiesa nel Mondo Contemporaneo (Gaudium et Spes, n. 29, paragrafo 1) ha detto che «non si dia per carità ciò che spetta per giustizia», possiamo ben accettare questa nuova concezione di solidarietà di difesa dei diritti umani e questa più completa visione di immagine di Dio, crocifisso e risorto, rivolta alle persone con disabilità, come più aderente alla sensibilità moderna. Del resto, accanto agli esempi di solidarietà indicati nel Vangelo secondo Matteo (“dare da mangiare agli affamati”, “dare da bere agli assetati”, “visitare i carcerati”.), oggi potremmo aggiungere ad esempio le iniziative degli attivisti per i diritti umani di tutti e tutte, e in particolare delle persone con disabilità o di quanti sono perseguitati per cercare la pace tra i popoli; infatti Gesù, nel famoso Discorso della Montagna sulle beatitudini (Matteo, capitoli da 5 a 7) dice, tra l’altro, «beati quanti operano per la giustizia e gli operatori di pace».

Ora, questi impegni sono volti ad aiutare gli “emarginati” – come spesso sono le persone con disabilità – ad includersi in una vita normale nella società o ad evitare di piombare nell’emarginazione a causa delle guerre; e tra i volontari impegnati nelle attività di inclusione possono esservi pure persone con disabilità, operanti come soggetti attivi e non solo come destinatari di interventi. Si pensi ad esempio alla Comunità di Capodarco, fondata da don Franco Monterubbianesi che, non a caso, è intitolata proprio a “Gesù risorto”. E molte di queste organizzazioni di volontariato di persone con disabilità non si occupano solo di persone con disabilità, ma sempre più spesso si sono aperte anche alla difesa dei diritti umani di altre persone in difficoltà, quali i migranti, le persone senza fissa dimora, le persone povere e altre escluse dalla normale vita sociale.

Mi sono permesso da semplice fedele, come la signora Donata, questa digressione sugli aspetti della morte e resurrezione di Gesù, poiché siamo in tempi pasquali, ma scendendo dalle “vette teologiche” su cui mi sono avventurato, per arrivare alle esperienze di vita degli ultimi  anni, abbiamo due esempi di persone divenute con disabilità che, nella comunità ecclesiale, non sono state assolutamente oggetto passivo di pietismo compassionevole, ma sono stati i soggetti-guida della Chiesa; mi riferisco segnatamente a Papa Giovanni Paolo II, che è stato in situazione di disabilità negli ultimi anni della sua vita (ma che già portava le conseguenze dell’attentato subito a suo tempo in Piazza San Pietro) e naturalmente a Papa Francesco che a lungo si è mosso in carrozzina a causa di un grave problema al ginocchio e che ai suoi detrattori, i quali volevano che per questo si dimettesse, fece sapere indirettamente, che «la Chiesa non si governa coi piedi, ma con la testa!». Ed egli l’ha governata anche come pastore sino al giorno di Pasqua, ultimo giorno della sua vita attiva, con la formulazione della sua ultima omelia, del discorso e della benedizione pasquale Urbi et Orbi, oltreché dell’incontro conclusivo con la gente in Piazza San Pietro.

Sul rapporto tra Chiesa Cattolica e Disabilità, suggeriamo la lettura di una serie di contributi da noi recentemente pubblicati, ultimo dei quali Alla teologia manca ancora il capitolo della disabilità di Ilaria Morali (a questo link), in calce al quale sono indicati anche i link ad altri precedenti testi.
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