Il 25 febbraio scorso il Comitato di Bioetica della Repubblica di San Marino ha approvato un documento denominato L’approccio bioetico alle persone con disabilità (a tal proposito si legga, su queste stesse pagine, l’ampia intervista di Laura Sandruvi a Luisa Maria Borgia, vicepresidente del Comitato), il primo al mondo costruito sui princìpi della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Si tratta di un testo interessante, che merita di essere letto con attenzione. Però è anche un testo che prende in considerazione esclusivamente la prospettiva delle persone con disabilità, la qual cosa, per certi versi, può rappresentare un punto di forza, ma, per altri, può trasformarsi in un limite.
Questa visione a senso unico rappresenta un limite, ad esempio, quando si parla di aborto. Se infatti l’aborto viene esaminato dal punto di vista dell’embrione/feto – e si attribuiscono a quest’ultimo dei diritti – è ovvio che l’interruzione volontaria di gravidanza costituisca una violazione del diritto alla vita e alla salute del nascituro/a (ciò sia in presenza che in assenza di anomalie/malformazioni dell’embrione/feto).
Il limite è rappresentato dalla circostanza di non riuscire a cogliere la prospettiva della donna. E non è un limite da poco, se si considera che l’aborto è uno strumento di autodeterminazione delle donne, non del nascituro/a. Ma se chi ha steso il documento considera corretto guardare a questo strumento dal punto di vista del nascituro/a, allora queste stesse persone devono prendere coscienza di essere antiabortisti. Non c’è niente di male ad essere antiabortisti, basta semplicemente non fare ricorso all’aborto. Tuttavia gli estensori non ammettono di essere antiabortisti, loro non sono contro l’aborto in generale – o, almeno, non sembra che il documento possa essere inteso in questo senso -, loro sono contro il solo aborto terapeutico, perché solo questo è considerato espressione di una discriminazione e di una violazione del diritto alla vita delle persone con disabilità. Insomma: aborto sì, ma solo a condizione che l’embrione/feto sia “sano” (vale a dire: che non presenti significative anomalie/malformazioni).
E tuttavia, il diritto alla vita non è un “diritto a intermittenza”: o lo si riconosce a tutti gli embrioni/feti, oppure è difficile invocarlo in relazione a specifiche caratteristiche dell’embrione/feto. Fatto sta che – come ha ben spiegato la scrittrice e filosofa Chiara Lalli – «essere una persona “potenziale” non basta per aspirare ad avere gli stessi diritti di una persona attuale» (Aborto, il dibattito negato. Mai vere discussioni, solo slogan, in «La 27ª ora», «Corriere della Sera.it», 25 marzo 2013). Pertanto, la donna che decide di praticare l’aborto non sta ledendo il diritto di nessun’altra persona, per il semplice motivo che, in quel dato momento, l’altra persona non c’è ancora.
Rispetto poi alle analisi diagnostiche finalizzate ad accertare le condizioni dell’embrione/feto, il testo del documento (p. 34) rileva: «…per quanto l’analisi diagnostica possa essere accurata (e non sempre i test garantiscono una precisione diagnostica), l’informazione che viene fornita ai genitori è quasi sempre orientata in quanto basata su una visione medica indipendentemente dal tipo di diversità funzionale alla quale andrà incontro il nascituro. In questa direzione, l’informazione alla coppia (spesso effettuata in pochi minuti) risulta già orientata dal fatto che avviene in un contesto esclusivamente medico, senza altre informazioni che permettano di avere una visione completa e realistica sulla futura condizione di vita del feto».
Se così è, dunque, l’intervento più appropriato dovrebbe essere quello di formare i medici perché possano integrare le proprie competenze sanitarie con altre di carattere socio/culturale, in modo tale da essere in grado di fornire alle pazienti (e alle coppie) informazioni più complete, composite ed esaustive in tema di disabilità. Ma non è questa la misura scelta dal Comitato Sammarinese di Bioetica che, infatti, propone (pp. 34-35) «una corretta e completa forma di counselling», che «dovrebbe prevedere anche la presenza di genitori e/o membri di associazioni, competenti e formati, che si occupano di quella particolare diversità funzionale».
In sostanza: le persone con disabilità (o i loro rappresentanti) chiedono di poter interagire direttamente con le donne nella fase in cui queste ultime devono decidere se portare avanti o meno la gravidanza. Vogliono incontrare queste donne per aiutarle a tutelare gli interessi delle stesse? No, vogliono incontrarle per tutelare gli interessi delle persone con disabilità, o, peggio, per esercitare su queste donne pressioni in senso antiabortista.
Quella che ho definito “visione a senso unico” non permette al Comitato Sammarinese di Bioetica di cogliere che chi riconosce e difende i diritti della donna non può accettare che ella debba discutere o contrattare le decisioni che hanno una ricaduta diretta sul suo corpo e sulla sua vita con i più diversi gruppi d’interesse (le persone con disabilità non sono le uniche che vogliono dispensare “buoni consigli” alle donne incinte…).
E, d’altra parte, le stesse persone disabili avrebbero non poche difficoltà a negare come, il mettere al mondo un figlio/a con disabilità, abbia un’incidenza sugli stili di vita dei genitori, e in particolar modo delle madri, molto maggiore rispetto a quella – già molto significativa – che si riscontra nelle nascite di figli/e senza disabilità.
La famiglia in cui è presente una persona con disabilità è esposta a un rischio di povertà molto maggiore rispetto a quello rilevato nelle “famiglie medie”. Nella “famiglia disabile” è molto frequente che almeno un genitore (generalmente la madre) si ritrovi a dover lasciare per sempre il lavoro retribuito per assistere la persona con disabilità, senza ricevere in cambio nessun tipo di indennizzo economico.
Il Gruppo La Cura Invisibile – che porta avanti la battaglia per il riconoscimento giuridico, economico e previdenziale del caregiver familiare -, definisce come «lavoro enormemente usurante» quello del caregiver che si occupa di una persona con disabilità gravissima; talmente usurante, da vedersi ridurre la propria aspettativa di vita fino a 17 anni in meno.
C’è poi il problema del “dopo di noi”: molti genitori vivono e muoiono con l’angoscia di non sapere che ne sarà dei loro figli/e incapaci di provvedere a se stessi/e quando loro (i genitori) non ci saranno più. E si potrebbe andare avanti elencando tutta una serie di altri aspetti che mostrano quanto sia riduttivo e semplicistico provare a spiegare il ricorso all’aborto terapeutico utilizzando la sola chiave di lettura del “mito del figlio sano”, come invece fa il Comitato Sammarinese di Bioetica. Anche questo è un senso unico che andrebbe evitato.
Eppure, guardandosi in giro, osservando, càpita spesso di vedere bambini e bambine con disabilità. Non solo con disabilità “imprevedibili”, anche con disabilità che, stando ai progressi della medicina, sono prevedibilissime. Questo vuol dire che anche nei casi in cui i test prenatali non lascino dubbi circa la presenza di anomalie o malformazioni dell’embrione/feto, ci saranno sempre alcune donne che sceglieranno di continuare la gravidanza, e ci saranno sempre altre donne che decideranno di interromperla. Come si fa a capire quel è la scelta “giusta”? La scelta “giusta” è quella presa dalla donna, in piena libertà, e in accordo col suo sentire. In tema di gravidanza, chi difende i diritti umani, non può fare altro che rispettare il diritto della donna a disporre di sé come meglio crede.
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