Essere cattolici impone di pensare, ma di non giudicare, di mantenersi indulgenti comunque verso le persone, pur condannando le azioni.
Cerco sempre di ricordarlo tutte le volte che all’esterno e all’interno di una chiesa mi trovo di fronte a difficoltà reali per la mia carrozzina, cerco sempre di ricordarlo quando leggo di sacerdoti che evitano o esplicitamente rifiutano di sposare persone disabili.
Non possumus…: la frase usata dal vescovo di Viterbo Lorenzo Chiarinelli per negare il matrimonio religioso ad una coppia di giovani perché l’aspirante marito aveva avuto un grave incidente automobilistico che lo aveva lasciato tetraplegico, è certamente una frase più adatta a noi [la vicenda è stata descritta in questo sito con il testo disponibile cliccando qui, N.d.R.]. Ovvero, siamo noi che non possiamo proprio digerire il fatto che ancora oggi la gerarchia cattolica assuma atteggiamenti di noncuranza nei confronti dei diritti civili e sociali delle persone con disabilità.
Lo Stato del Vaticano, infatti, non ha firmato la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, con motivazioni veramente esili. L’articolo confutato è il venticinquesimo, quello sul diritto alla salute, che fa riferimento ai servizi sanitari e alla sfera sessuale. Per la prima volta si sancisce in quella norma il diritto delle persone con invalidità a vivere consapevolmente le proprie esperienze affettive, sessuali e riproduttive, ma per la Santa Sede quell’articolo può sottintendere una possibile apertura verso l’interruzione volontaria della gravidanza.
Anche così, però, si sarebbero potute formulare riserve sul testo specifico, firmando comunque la Convenzione e se non lo si è voluto fare, ciò significa che le ragioni sono più profonde e che necessitano di una sincera e profonda ricerca da parte delle alte gerarchie cattoliche.
È mai possibile che la Chiesa Cattolica sia ancora così restia a promuovere l’integrazione di tutti i suoi figli? È mai possibile che ancora esista al suo interno una parte così consistente di sacerdoti e pii laici che si credono in qualche misura “separati e superiori agli altri”, tenuti ad elargire magnanimamente della beneficenza e non semplicemente a riconoscere pari dignità ai meno fortunati?
Perché sui temi dell’inclusione delle persone con disabilità la Chiesa Cattolica lascia sistematicamente ai laici la primogenitura nella discussione e nella lotta? Perché non è stata, fino ad ora, pronta ad anticipare, ispirare e ad applicare le norme che vogliono superare le barriere fisiche per abbattere quelle mentali? Perché non assume un ruolo centrale nella difesa dei diritti dei più deboli, senza indulgere al paternalismo e alla beneficenza?
Queste sono riflessioni amare, ma obbligate, di fronte ad una grande realtà confessionale, umana e culturale che stenta a superare pessime tradizioni antiche.
Nonostante i molti sacerdoti che si battono in prima linea nel volontariato a favore dei più deboli, nonostante l’eroismo di tanti missionari che dividono la loro sorte con i più poveri della terra, sembra che su questi temi l’orologio del tempo si sia fermato a secoli fa.
Perfino la stessa casa di Dio, che è il Padre di tutti, indistintamente dimostra spesso la superficialità e la freddezza con cui si finge di abbattere le barriere. Anche laddove l’accesso è in qualche modo più o meno assicurato (si fa per dire), quasi mai si arriva però all’altare e quando lo si fa notare, le risposte sono spesso miserevoli: le barriere architettoniche debbono rimanere perché altrimenti si rovina l’estetica del luogo… potrebbero insorgere difficoltà con chi tutela i monumenti… in fondo non ci sono problemi, anzi, così si coglie una buona occasione per farsi dei meriti, tanto, se proprio vogliono entrare in chiesa o avvicinarsi all’altare, i disabili possono essere trasportati dai buoni volontari, ancora meglio se tutti insieme, nei giorni deputati, a farsi benedire e compiangere un po’ da tutti…
Questo è un atteggiamento nient’affatto raro, nei cui confronti non mi risultano prese di posizione decise da parte della gerarchia ecclesiastica.
Chi ha un handicap viene ancora oggi considerato da molte degne persone (forse inconsapevolmente) come un soggetto destinato a coprire un ruolo fisso che è sostanzialmente di rappresentazione del dolore.
Il disabile diventa così l’”infelice” per antonomasia, anche se in effetti è infelice soltanto perché vive in un ambiente ignorante, che non conosce e non vuole riconoscere i suoi diritti e le sue prerogative di persona.
Gli occhi lucidi, gli sguardi di commiserazione, le carezze infantili, le espressioni di benevolenza, di incoraggiamento alla rassegnazione sono quasi sempre i segni esteriori di un paternalismo vecchio stampo, che mette le persone con disabilità in un angolino profumato di penitenza e di preghiere, nel quale organizzare una vita normale può sembrare un peccato, uno strappo indecoroso alla stessa volontà del Creatore.
In fondo scandalizza un “infelice” che vuole essere felice! Che vuole studiare, lavorare, sposarsi e fare figli, caso mai con qualche aiuto in più della medicina. Come osa? Se diventa indipendente, come si possono fare dei fioretti, portandolo in braccio e accarezzandolo con le lacrime agli occhi?
Siamo ormai nel XXI secolo, ma è inutile negare che questa è ancora una mentalità che serpeggia più o meno esplicitamente in molte parti del nostro Paese.
Così, se altrove, in nazioni assai lontane dalla Santa Sede, si preparano le città, le case, le scuole, i posti di lavoro per accoglierci e per integrarci pienamente nella società, qui ci si attarda ancora fra gli amari residui di un’ignoranza antica. E si rende ancora più dura l’esistenza di tante persone, non di quelle lontane e aliene dalla Chiesa Cattolica, ma proprio di quelle che la amano e che la vorrebbero più vicina e aderente alla figura di Gesù e al messaggio del Vangelo (la bara di Piergiorgio Welby fuori dalla chiesa…!).
La sua grande lontananza, il disimpegno civile che degrada anche il discorso etico e morale, ripropone purtroppo un approccio sbagliato all’universo dell’handicap, un approccio che delude profondamente. Ma si sa, la fede – per fortuna – non c’entra!
*Presidente nazionale dell’ANIEP (Associazione Nazionale per la Promozione e la Difesa dei Diritti Civili e Sociali degli Handicappati).