Ancora qualche secondo e la luce verde darà il lasciapassare. Allora attraverseranno insieme la strada. Due donne sul marciapiede. Stanno parlando tra loro e intanto guardano avanti, là dove il semaforo cambierà colore. Madre e figlia sul marciapiede. La signora è una donna minuta, capelli corti biondi; la figlia avrà circa vent’anni.
Un’ultima auto passa loro davanti, rallenta. Il finestrino scivola giù, mentre la voce alla guida, gli occhi rivolti alla ragazza, le grida dietro: «Quanto sei bella». È un attimo e quella macchina è già lontana, mentre il verde reclama l’attraversamento. Ma per la madre, impietrita, è come se si fermasse il mondo, mentre, accanto a lei, la figlia si scioglie in pianto.
No, non è come sembra. Non è stata una scena di corteggiamento, per quanto maldestro e fugace. E quelle tre parole, gridate dal finestrino, nulla avevano di apprezzamento. Perché la ragazza – si chiama Francesca – viene da un ciclo di chemio e da un trapianto di midollo e i farmaci, coi loro effetti collaterali, non sono stati teneri con lei. «Forse è stata proprio la “mole” di mia figlia a suscitarle quel commento», ha scritto all’«Eco di Bergamo» la signora, rivendicando comunque, fiera, «la bellezza di mia figlia, malata di leucemia». Sì, suscitarle, perché a rallentare quell’auto, a tirare giù il finestrino e a sentirsi in dovere di umiliare una perfetta sconosciuta, in attesa di attraversare la strada, è stata una donna. A Bergamo, in Via Statuto, lo scorso gennaio.
Cambio di scena. Un tavolo allegro di sei persone dentro a un locale. Allegro perché con i genitori ci sono quattro bambini, dai tre ai nove anni. Hanno mangiato bene. E adesso mamma e papà stanno aspettando il caffè. Poi tutti si alzeranno per tornarsene a casa. I bambini hanno preso la pizza e la cameriera li ha coccolati, specie la più grande che ora è intenta a giocare con dei pezzetti di carta. La cameriera è ancora lì accanto, le sta dicendo qualche parola, quando uno dei foglietti vola via dal tavolo per posarsi su quello vicino, dove un’altra famiglia, con gli amici, sta consumando la cena. Il pezzetto di carta è finito giusto sul bordo del piatto di quell’altro padre: basterebbe un soffio per farlo volare via di nuovo, ma quello lo toglie via infastidito, sentendosi in dovere di dire a quei due genitori: «Quando si hanno dei figli mongoli è meglio starsene a casa».
I due restano impietriti come la mamma di Bergamo, poi vorrebbero gridare qualcosa, infine pensano alla figlia maggiore, una bambina Down, e no, non la vogliono agitare con una scenata. Ingoiano rabbia e dolore, come scriveranno alla «Tribuna di Treviso», ed escono dal locale. A Treviso, in una pizzeria, sempre lo scorso gennaio.
Storie da niente, si dirà. Solo parole fetide come le fogne che le hanno partorite. Mica vero. Qui non siamo dalle parti dei bulli dello Zen, a Palermo, che picchiano la loro compagna disabile di 11 anni, dopo averla insultata. O dalle parti di Clusone, ancora nella Bergamasca, dove due settimane fa l’autista di un bus di linea ha dovuto chiamare la Polizia e poi fermare il pullman perché sei ragazzini, di ritorno dalla scuola, non la smettevano più di insultare con dei cori offensivi una signora invalida. O dalle parti del 16enne disabile picchiato a scuola a Pescia, nel Pistoiese. O della 15enne disabile, anche lei, picchiata e stuprata da quattro minorenni ad Acquedolci, in provincia di Messina.
Se questi – teppisti e provocatori, violentatori e bulli – sono i figli, beh, le voci della donna di Bergamo e dell’uomo di Treviso sono, in qualche modo, quelle dei genitori. Sono le viscide impronte vocali lasciate sulla pelle e sul cuore delle persone più deboli – bambini e malati – diventate ormai, agli occhi marci di una subcultura fatta di corpi-in-forma e di oblio-della-diversità, addirittura intollerabili.
Quasi dei parafulmini – a portata di mano e di voce – per questa ferocia quotidiana, che, da noi, ormai si respira un po’ ovunque. Di questa intolleranza, appuntata sul petto dei nuovi prototipi umani che non han pietà di niente e di nessuno, ma sono pronti a rovesciare tutta la propria inadeguatezza su un bambino che potrebbe essere il proprio, su una figlia malata che, domani, potrebbe esser la loro. Incapaci non solo di sentire il meglio, ma pure di tacere il peggio, tenendo almeno chiusi la bocca e i finestrini.
*Per gentile concessione dell’Autore e di «Sette/Corriere della Sera», dove il testo è apparso il 25 febbraio 2010.