Quadrare il cerchio: così Ralf Dahrendorf qualche anno fa intitolava un illuminante libretto in cui metteva a fuoco il dilemma angoscioso nel quale si dibattono le economie socialdemocratiche attuali, a causa della globalizzazione.
Infatti, sino ad oggi le economie capitalistiche europee erano riuscite a conciliare il mercato concorrenziale con la salvaguardia di fondamentali diritti sociali, giacché erano rimasti gli unici produttori al mondo a conciliare costi di produzione decrescenti – grazie all’incessante incremento tecnologico – e diritti sociali dei lavoratori, grazie a sistemi di imposizione fiscale e parafiscale gravante anche sugli stessi decrescenti costi di produzione.
Con la globalizzazione, si sono affacciati sul mercato i Paesi emergenti, sia come consumatori di fonti di energia (che sono quindi cresciute di prezzo, specie il petrolio), sia come produttori. I loro costi di produzione sono molto bassi, essendo tali Paesi privi di forme di sicurezza sociale. I salari, poi, a causa dei bassissimi livelli di vita di queste realtà, sono incommensurabilmente competitivi.
Di qui il problema dell’assai difficile quadratura del cerchio che soprattutto nei Paesi europei è costituita dal dover conciliare un necessario ribasso dei costi del lavoro con il mantenimento degli attuali livelli di sicurezza sociale.
Nei nostri Paesi europei, i salari non solo subiscono la concorrenza di quelli dei Paesi emergenti, ma si scontrano al proprio interno anche con i salari “neri” degli immigrati, sempre più numerosi e sempre più richiesti dai produttori.
I settori più deboli – come l’agricoltura – sino ad oggi mantenuti artificialmente in vita da sistemi protezionistici, legati al mercato comune europeo, cominciano a traballare. Infatti, essi si trovano da un lato a subire la concorrenza dei similari prodotti agricoli dei Paesi emergenti – prodotti a costi enormemente più bassi -dall’altro, a causa dell’aumento dei membri dell’Unione Europea, i Paesi fondatori della stessa debbono dividere con quelli nuovi i fondi strutturali, che non potranno corrispondentemente aumentare, essendo finanziati con il prelievo fiscale che fa aumentare i costi di produzione.
L’Italia – che prima era tra i Paesi col maggior numero di zone depresse e quindi col maggior flusso di fondi strutturali – ora, rispetto alla media dei nuovi membri, diviene relativamente molto più ricca e quindi riceverà molto meno in fondi strutturali, coi quali si praticavano varie politiche sociali, specie verso le fasce deboli nell’ingresso nel mercato del lavoro.
Inoltre, il nostro deficit di bilancio, che non si è riusciti a ridurre secondo le regole concordate nell’Unione, ci impone di dover ridurre le spese e le imposte.
In questa situazione, sembra necessario rivedere le politiche sociali che invece sono assai rigide e attualmente garantiscono solo ceti protetti, come gli occupati del settore pubblico, i pensionati che hanno lavorato meno della media europea e quanti si trovano, da lavoratori, nelle condizioni di poter continuare a pensionarsi assai presto.
Molte risorse, infine, vengono risucchiate da rendite in settori scarsamente concorrenziali, come le assicurazioni e le banche.
Tutto ciò impone scelte difficili nell’allocazione dello scarsissimo avanzo del Prodotto Interno Lordo (che sembra tendere allo zero) fra investimenti produttivi e tutela dei diritti sociali.
In tale situazione economica, riprendono forza le correnti di pensiero liberista, specie di matrice anglosassone, che vedono nel solo mercato di libera concorrenza totale la soluzione dei problemi. Un’impostazione culturale, questa, che ha un suo retroterra filosofico e antropologico nella visione dell’homo economicus il quale, lasciandosi guidare solo dai propri interessi individuali, risolve i propri problemi di sopravvivenza e in tal modo anche quelli della società.
Ovviamente, in questa visione darwiniana dell’economia e dell’uomo, la selezione farà emergere solo i migliori, mentre i più deboli soccomberanno.
In Occidente, poi, questa visione filosofico-antropologica ha anche un retroterra religioso, con il concetto dei “migliori premiati dalla provvidenza”. I più deboli, però, non sono abbandonati a se stessi e quindi “alla malora”, come vorrebbe una visione cinica e disumana; essi vengono affidati al filantropismo cristiano che si realizza tramite il volontariato, vero e proprio “barelliere della Storia”.
In questa visione non ha più senso parlare di “diritti” (coi quali ci si può trastullare in epoca di vacche grasse): infatti, in periodi di crisi come quella attuale, i diritti non regrediscono nemmeno ad interessi “legittimi”, ma ad interessi semplici, che possono essere soddisfatti solo tramite la carità privata e pubblica, limitatamente a quel residuo di Prodotto Interno Lordo che le classi dirigenti ritengono opportuno destinare ad essa, al solo fine di evitare l’inasprirsi del conflitto sociale.
Appare singolare, a questo punto, che larghi strati di intellettuali che si dicono cristiani, i quali condannano le teorie darwiniane in biologia e la lotta di classe in sociologia, riescano poi a dare soluzioni politiche che proprio di quegli schemi culturali sono tributarie.
Di fronte a queste derive, cosa possa fare un futuro Parlamento italiano di segno politico diverso da quello attuale sembra molto difficile immaginare, dati i vincoli finanziari in cui dovrà dibattersi e i vincoli legislativi che tutelano le rendite e le fasce protette dei ceti abbienti.
La liberalizzazione del mercato del lavoro sembra inarrestabile. Allora però occorrerebbe istituire un sistema capillarmente diffuso di collocamento lavorativo, in modo che il lavoratore che perde il proprio posto possa immediatamente trovarne un altro, magari peggiore del precedente, ma con la speranza di arrivare presto ad uno migliore.
Oggi, con la Legge 30/2003, si è riusciti a rendere estremamente precario il lavoro, abbassandone così il costo, ma non si è contemporaneamente assicurata alcuna forma di conoscenza delle opportunità lavorative.
In tali condizioni salariali e di precariato, diviene farisaica ogni conclamata politica a sostegno delle famiglie, che sempre più tarderanno a costituirsi e sempre prima tenderanno a rompersi.
Le famiglie di fatto sono una realtà alla quale occorre politicamente dare risposte razionali e non ideologiche, anche se sostenute da argomentazioni costituzionali o religiose. Gesù dovette scontrarsi con le classi sacerdotali del suo tempo, perché sosteneva che «l’uomo non è fatto per il Sabato, ma il sabato per l’Uomo».
Le politiche sociali del nuovo Parlamento dovrebbero quindi avere il coraggio di ridurre le garanzie dei pensionati di annata e di quelli che continuano a diventarlo.
Dovrebbe poi aprire la concorrenza nelle nicchie di rendite parassitarie delle banche e delle assicurazioni: ma si tratta di “poteri veramente forti”.
Dovrebbe inoltre avere il coraggio e la forza di lottare contro la “solidificazione mafiosa” che opprime il Sud d’Italia, con la connivenza delle forze politiche che da essa traggono voti e potere e ad essa cedono ampi spazi commerciali e di arricchimenti illeciti.
Per lottare contro la mentalità mafiosa, occorrerebbe sottrarre i bambini all’influenza di essa, come cercò di fare don Pino Puglisi, che fu lasciato solo. Occorrerebbe dare fiducia ai grandi per contrastare i soprusi, come cercarono di fare Dalla Chiesa, Borsellino, Falcone, Livatino e tanti altri, lasciati ammazzare da una classe politica che non ha avuto la forza culturale e morale per contrastare le varie mafie.
Il Parlamento dovrebbe infine votare una riforma scolastica che potesse creare le condizioni per una maggiore professionalità dei docenti e quindi una maggiore voglia di apprendere degli studenti.
Per quanti saranno in condizioni di difficoltà economica e sociale, occorrerà garantire un minimo vitale per un certo periodo limitato di tempo, offrendo loro opportunità di ingresso nel mercato del lavoro, anche all’estero e una migliore formazione professionale. E questo sulla base di progetti che dovrebbero obbligatoriamente accompagnare non solo il rilascio di “buoni servizi”, ma anche di “assegni economici”.
Ovviamente quanto fin qui detto non è che un cenno e una suggestione che meritano – e meriteranno – ben maggiore approfondimento e serietà di analisi.
*Vicepresidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
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