La questione riguardante le persone con disabilità negli interventi di emergenza e umanitari è stata oggetto di riflessione solo a partire dalla guerra nella ex-Jugoslavia, in cui il mondo intero vide per la prima volta la drammatica situazione nei campi di raccolta degli sfollati in Kosovo, dove il trattamento delle persone con disabilità ne violava spesso i diritti umani. Ad Haiti, a seguito del terremoto del 2010, ben 4.000 persone furono amputate solo perché non vi erano sufficienti unità sanitarie, mettendo in evidenza che esse non avevano sufficienti sostegni, non solo in termini di protesi e ortèsi, ma anche nessun supporto psicosociale adeguato a ricostruire una vita all’improvviso diversa. Questa incapacità di proteggere e di assistere in maniera competente le persone con disabilità si è evidenziata in tanti disastri naturali ed umani, anche nei terremoti e nelle inondazioni verificatisi nel nostro Paese.
Con la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, il tema della disabilità è stato approcciato, per la prima volta, in termini di diritti umani. Ratificata da 183 Paesi (il 94,6% degli Stati Membri delle Nazioni Unite), tra cui l’Italia con la Legge 18/09, la Convenzione rappresenta oggi uno standard internazionale da rispettare non solo in termini legali, essendo una Legge Internazionale, ma anche culturali e tecnici. Essa sottolinea infatti che «la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri» (Preambolo, lettera e), mettendo in evidenza che l’organizzazione delle società umane ha creato barriere e ostacoli alla partecipazione delle persone con disabilità, condizioni di discriminazione e di mancanza di pari opportunità, con conseguenti violazioni dei diritti umani.
Questa definizione rivoluziona la visione tradizionale, basata su un modello medico che assegna la responsabilità di una condizione di disabilità alla condizione di limitazioni funzionali dei singoli soggetti, introducendo la responsabilità degli Stati e della società, attraverso un modello sociale di disabilità fondato appunto sul rispetto dei diritti umani. L’organizzazione dei trasporti, degli spazi urbani, degli edifici e dei servizi pubblici o aperti al pubblico, dell’accesso all’informazione e alla documentazione (articolo 9 della Convenzione) ha prodotto barriere, ostacoli e discriminazioni, oggi largamente affrontabili in termini tecnici e tecnologici.
Tutto ciò si amplifica nel campo degli interventi umanitari e d’emergenza. Infatti, l’articolo 11 della Convenzione (Situazioni di rischio ed emergenze umanitarie) obbliga gli Stati che l’hanno ratificata ad adottare «tutte le misure necessarie per garantire la protezione e la sicurezza delle persone con disabilità in situazioni di rischio, incluse le situazioni di conflitto armato, le emergenze umanitarie e le catastrofi naturali».
L’impostazione della Convenzione riconosce quindi che le persone con disabilità devono godere di tutti i diritti umani in condizioni di uguaglianza con gli altri cittadini e che la condizione di persone con specifiche caratteristiche dipende da fattori bio-psico-sociali, di carattere dinamico, modificabili sia nell’àmbito sociale sia individuale. Pertanto, rimuovere o ridurre la condizione di disabilità è una responsabilità degli Stati e della società che devono farlo intervenendo su fattori sanitari, sociali e umani; essendo infatti una condizione ordinaria di tutto il genere umano nell’arco di una vita, la disabilità riguarda tutte le politiche e porre ad essa un’adeguata attenzione rappresenta una convenienza per l’intera società. Tutti questi elementi, applicati alle condizioni di emergenza, richiedono la riformulazione delle politiche e degli interventi tecnici e professionali, anche nel campo degli aiuti umanitari.
Proprio il tema della protezione e della sicurezza delle persone con disabilità è stato approfondito negli ultimi anni dal dibattito internazionale, per garantire a tali soggetti uguaglianza di opportunità e non discriminazione. La cosiddetta “Carta di Verona” del 2007 (Carta di Verona sul salvataggio delle persone con disabilità in caso di disastri) è stato il primo documento a definire i princìpi generali su cui basare gli interventi di emergenza per queste persone. Sono poi seguiti articoli e manuali in àmbito internazionale, curati dalle organizzazioni non governative e da quelle di persone con disabilità: se ne veda a tal proposito la bibliografia contenuta in Aiuti umanitari e disabilità. Vademecum (Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Roma, 2015), comprendente anche il Vademecum sugli aiuti umanitari e la disabilità, pubblicato dalla Cooperazione Italiana allo Sviluppo, primo documento organico di un Governo in materia.
Anche le Nazioni Unite hanno licenziato una serie di documenti sul tema degli aiuti umanitari e degli interventi di emergenza: il Sendai Framework for Disaster Risk Reduction del 2015 e la Charter of Istanbul for Inclusion of Persons with Disabilities in Humanitarian Action del 2016. In base a quest’ultima, nel mese di luglio del 2019 un gruppo di lavoro dello IASC (l’Interagency Standard Committee, il principale meccanismo delle Nazioni Unite per il coordinamento tra le Agenzie di Assistenza Umanitaria, foro unico che coinvolge i partner chiave dell’ONU e di altri Enti Governativi e della Società Civile, costituito nel giugno 1992, sulla base della Risoluzione 46/182 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite) ha emanato le Guidelines for Inclusion of Persons with Disabilities in Humanitarian Activities, dopo un lavoro di due anni che ha coinvolto i maggiori esperti nel campo, tra cui, per l’Italia, anche un rappresentante della RIDS (Rete Italiana Disabilità e Sviluppo).
Il filo rosso di tutti questi documenti è la necessità di garantire che l’aiuto umanitario e di emergenza sia rispettoso dei diritti umani di tutti. L’approccio umanitario si fonda da sempre su un intervento rapido sul modello dei corpi militari o delle organizzazioni caritatevoli (Esercito, Croce Rossa ecc.) con il primo modello si basa sulla limitazione delle perdite, il secondo sull’idea che i beneficiari degli interventi siano inabili e bisognosi unicamente di assistenza. Si parla, inoltre, di un intervento a due tempi, nel primo dei quali vanno garantiti gli elementi essenziali per il salvataggio e la prima accoglienza (cibo, salute e un luogo di ricovero), mentre solo in un secondo momento si cerca di garantire altri bisogni ritenuti “speciali”. Tali modalità, pertanto, non tengono conto delle persone con disabilità che sono appunto considerate come “speciali”.
È un meccanismo cui si rifà anche l’approccio del triage, termine francese che sta per “cernita”, “smistamento”, caratterizzando un sistema utilizzato per selezionare i soggetti coinvolti in infortuni secondo classi di urgenza/emergenza crescenti, in base alla gravità delle lesioni riportate e del loro quadro clinico. Ebbene, le persone con disabilità coinvolte in disastri naturali e umani spesso non sono assistite prioritariamente, anche se non sono state ferite, e vengono soccorse dopo le altre.
La prevenzione e la riduzione dei rischi derivanti da disastri devono essere basate su approcci multirischio e multisettoriali, inclusivi e accessibili in termini di efficienza e di efficacia. A tal proposito i documenti internazionali consigliano ai Governi di coinvolgere e impegnare le comunità e i suoi più importanti attori, tra cui donne, bambini e giovani, persone con disabilità, anziani, volontari, nella progettazione delle politiche, dei piani e degli standard, in una parola nella capacità di resilienza. Inoltre, tutta la società deve agire come partner impegnata, con una partecipazione basata sull’empowerment [crescita dell’autoconsapevolezza, N.d.R.] e sull’inclusione, sull’accessibilità e sulla non-discriminazione, prestando speciale attenzione alle persone colpite in maniera sproporzionata dai disastri, specialmente le fasce più povere della popolazione.
In tutte le fasi emergenziali vanno considerati il genere, l’età, la disabilità e le culture locali; deve inoltre essere promossa la partecipazione di donne e giovani, coinvolgendo e rafforzando le Associazioni volontarie della cittadinanza.
Anche l’Unione Europea e il Consiglio d’Europa sono intervenuti sul tema dell’emergenza inclusiva delle persone con disabilità: il Consiglio, dopo una serie di consultazioni con gli attori del settore, nel 2016 ha definito un manuale specifico come contributo del programma EUR-OPA; l’Unione ha emanato il Consenso europeo sull’aiuto umanitario, e ancora, dal Consiglio sono arrivate le Conclusions on Disability Inclusive Disaster Management, e dalla Commissione Europea, più recentemente (2019) la guida operativa The Inclusion of Persons with Disabilities in EU-funded Humanitarian Aid Operations, con la messa in campo, successivamente della ben nota Strategia sulla Disabilità 2021-2030, che si occupa anche delle attività relative agli aiuti umanitari e di emergenza.
Purtroppo quello che è emerso durante pandemia è la quasi completa assenza delle persone con disabilità negli interventi di emergenza messi in campo dai vari Paesi. E ciò è accaduto particolarmente in Italia. Il Piano Nazionale contro le Pandemie del 2006, mai aggiornato, cita solo in una tabella “gli invalidi”, senza prevedere alcuna attenzione alle residenze per anziani non autosufficienti e persone con disabilità. La stessa cultura della “medicina delle catastrofi” – cui si ispirano le Raccomandazioni prodotte nel 2020 dalla SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva), con le quali si volevano escludere dal triage le persone con disabilità grave [se ne legga anche su queste pagine, N.d.R.] – non ha ancora riflettuto sul nuovo approccio internazionale rispettoso dei diritti umani di tutti, restando ferma a vecchi stigma sociali negativi.
La non permeabilità dei sistemi di welfare con i sistemi di intervento in caso di emergenze ha dunque reso letteralmente “invisibili” le persone con disabilità e gli interventi messi in campo sono stati pensati come residuali e spesso puramente e parzialmente risarcitori, sicuramente non preventivi dei rischi e delle conseguenze di una pandemia.
Oggi è in corso la catastrofe umanitaria prodotta dall’occupazione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo, con comportamenti dell’esercito che ricordano le guerre medievali, crudeli e sanguinose, dove non c’erano regole da rispettare, ma solo la barbarie di azioni che possono configurarsi come crimini di guerra. Assediare le città, sparare sui palazzi residenziali, sugli ospedali, sulle scuole, su cittadini inermi pensavamo non potesse capitare, se non, come viene detto per salvarsi la coscienza, quali “danni collaterali”. Invece è apparso chiaro negli ultimi giorni che questo genocidio è una strategia deliberata per fiaccare il morale della resistenza ucraina.
In tale quadro apocalittico, ancora una volta è emerso come gli interventi umanitari messi in campo non hanno dimostrato un’adeguata preparazione e capacità tecnica ad intervenire per proteggere e assistere le persone con disabilità. In Ucraina molte di esse vivono in istituti, soprattutto i bambini, eredità del modello sovietico, e hanno grandi difficoltà a fuggire. Anche quando gli anziani e le persone con disabilità arrivano nei Paesi alle frontiere con l’Ucraina, il sistema funziona in gran parte per la disponibilità delle organizzazioni di persone con disabilità la cui solidarietà ha prodotto soluzioni di ospitalità in famiglie, capacità di rispondere alle diverse esigenze, non contemplate nelle modalità dei sistemi pubblici di emergenza.
L’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, ha attivato in questi giorni una specifica pagina web, per coordinare e informare i propri soci sulle azioni intraprese e da intraprendere per sostenere i diritti e gli appropriati sostegni agli sfollati e ai rifugiati ucraini con disabilità.
Nel nostro Paese, l’iniziativa della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), che ha coinvolto anche FAND (Federazione delle Associazioni Nazionali di Persone con Disabilità) e FID (Forum Italiano sulla Disabilità), di entrare nel Coordinamento promosso dal Forum Nazionale del Terzo Settore per l’Ucraina [se ne legga su queste pagine, N.d.R.], sta dando visibilità alle persone con disabilità ucraine rifugiate, mobilizzando e organizzando la spontanea attività delle singole Associazioni (ANFFAS, UICI, ENS ecc.). Senza il coinvolgimento delle organizzazioni di persone con disabilità e delle loro famiglie la Protezione Civile italiana non sarebbe in grado di intervenire con la stessa competenza e appropriatezza. Ci auguriamo dunque che una volta terminata questa immane tragedia, tale collaborazione venga formalizzata e riconosciuta, come indicato e richiesto da tutti i documenti internazionali citati nel presente contributo.
Componente del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International), coordinatore del Comitato Tecnico-Scientifico dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità.
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