La tragica vicenda della famiglia Vicentini, scoperta all’Aquila il 31 marzo scorso, dove un padre ha ucciso la moglie e i due figli e poi si è tolto la vita, non può essere secondo noi frettolosamente liquidata come dramma della disabilità. Il fatto che il figlio Massimo avesse una distrofia muscolare non aggiunge né toglie nulla alla drammaticità della vicenda in sé e associare la disabilità a questa tragedia è per noi un azzardo, perché non siamo in possesso di dati oggettivi che ci spieghino i motivi che hanno portato il padre a compiere questo gesto. Sarebbe dunque limitante liquidare in questo modo un episodio del genere.
Questa tragedia ci tocca da vicino, non solo perché è coinvolta una persona con disabilità. Ci tocca soprattutto perché è stata cancellata in un colpo solo un’intera famiglia: quattro persone attive, impegnate nel lavoro, in una vita di affetti e relazioni, ora non ci sono più.
Tra queste c’era anche Massimo che aveva sì una malattia neuromuscolare, ma che sapeva vivere appieno la sua vita. Laureato, sportivo, Massimo era persona coinvolta e attiva nella propria comunità. E non conta la presenza o meno di una carrozzina o di un respiratore.
Siamo profondamente addolorati per quanto è successo e ci stringiamo alla famiglia e agli amici in questo momento.
Alla vicenda di cui si parla nel presente contributo, «Superando.it» ha già dedicato i testi di Simona Lancioni (Quelle narrazioni che umiliano l’esistenza delle persone con disabilità), Francesca Arcadu (Massimo non era la sua disabilità!) e Giampiero Griffo (A proposito delle narrazioni povere e distorte sulla disabilità).
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