La storia di Monica Bertoletti e della sua famiglia comincia, come tante, con un grande amore, Roberto, che la porta a trasferirsi a Varese. Lì, nel 2004, nasce la loro prima figlia, Martina. Due anni dopo, arriva anche una sorellina, Erica.
Martina nasce in anticipo di un mese, ma pesa già 3,2 chili. La gravidanza e il parto hanno qualche complicanza, però la piccola sembra in perfette condizioni. Dopo qualche settimana, cambiando la neonata, i genitori si accorgono che ha un braccio molto più grosso dell’altro. La portano dalla pediatra e lei le fa notare che in effetti tutta la metà destra del corpo di Martina è più lunga e grossa. Tra le gambine c’è già un primo centimetro di dismetria, «quasi fossero due bambine diverse incollate malamente a metà».
La mamma si documenta e, all’incontro col genetista, trova conferma dei suoi sospetti: la figlia ha la sindrome di Beckwith-Wiedemann, una malattia genetica rara che colpisce un bambino su diecimila.
Nei mesi successivi, la famiglia gira tre ospedali, cambia altrettanti pediatri per offrire a Martina i migliori trattamenti disponibili e alla fine approda al San Raffaele di Milano.
Di quel periodo, Monica ricorda: «Avevo il cuore anestetizzato. Non piangevo e avevo un sorriso rassegnato del tipo “rimbocchiamoci le maniche e facciamo quello che si deve”. Poi, a casa, facevo i conti coi miei fantasmi. Ormai non ricordo nemmeno più l’intensità della paura e dello sconcerto».
Di qui comincia un percorso fatto di day hospital, analisi, attese, visite ortopediche e fisiatriche. La cosa più invasiva sono i tre centimetri e mezzo di dismetria che non potevano essere lasciati liberi di aumentare; così, nel 2010, Martina subisce il primo intervento alla tibia per rallentare la crescita della gamba iperaccresciuta in modo che l’altra la raggiunga in modo naturale.
In quell’occasione, la sua migliore amica le regala un peluche di “Vanessa la leonessa”, perché «bisogna essere molto coraggiosi a fare quello che vai a fare in ospedale e il leone è coraggioso come te».
A soli 6 anni, Monica e il marito hanno già riempito due interi raccoglitori per la sola documentazione clinica della bambina, più quelli per la burocrazia. La mamma di quel periodo ricorda «i prelievi che Martina non voleva fare, con me che dovevo tenerla bloccata contro il mio corpo perché riuscissero a prendere sangue quanto basta e il papà in attesa col ciuccio in mano per portarla via da quella stanza». E «la tartaruga che abbiamo trovato nella fontana dell’ospedale e ci siamo portati a casa, perché non si abbandonano gli animali o il vassoio del self-service ospedaliero con un piatto di riso scondito, che la bambina voleva portare da sola». Poi, ancora, le ecografie, necessarie perché la sindrome di Beckwith-Wiedemann aumenta il rischio di tumore agli organi interni.
«Nella stanza c’era un poster coi personaggi dei Pokemon che ormai conoscevamo a memoria, Martina guardava il monitor e diceva: oggi ho le rane nella pancia».
Con il passare del tempo, mamma e papà, supportati anche dagli insegnanti della piccola e dai medici, hanno inventato le routine più disparate per farle passare le visite e i ricoveri nel modo più sereno possibile. Sempre con il pensiero dell’altra figlia, «che ha dovuto subire assenze, pensieri, a volte anche passare in secondo piano. Penso per esempio alle scarpe che le compravamo. Dovevano essere abbastanza brutte, perché Martina, che doveva portare quelle ortopediche, non fosse invidiosa, ma anche abbastanza carine affinché Erica le indossasse contenta». «A volte – continua – abbiamo dovuto dividere la famiglia in due, perché ogni figlia aveva le sue esigenze, oppure legare i nostri programmi ai tempi dei controlli e degli interventi. Gite saltate, recuperi scolastici, spiegazioni, feste di compleanno e di paese rimandate all’anno successivo».
Nel tempo, si sono rese necessarie in tutto sette operazioni. Martina – che nel frattempo ha cominciato a fare equitazione – le ha affrontate con grande consapevolezza. Oggi è una ragazza di quasi 19 anni, le sue gambe sono lunghe uguali e ha imparato a vivere – non convivere o sopravvivere – con la sindrome di Beckwith-Wiedermann.
Ama i manga, si è diplomata in luglio al Liceo Artistico, sta progettando una carriera da tatuatrice, indossa la minigonna e non si vergogna delle cicatrici sulle ginocchia derivanti dalle operazioni, perché sono parte della persona che è e delle sfide che ha dovuto e dovrà affrontare.
«La diagnosi di patologia rara – continua la mamma – è come un pugno nello stomaco. Va elaborata come un lutto, con tutte le sue fasi. Non è il figlio che hai sognato, ma è pur sempre il tuo amatissimo figlio. Devi imparare a vedere le cose da una prospettiva diversa. È complesso. Le emozioni di ogni mamma e papà sono personali e differenti. La tua vita cambia per sempre. Inizialmente devi trovare appoggi medici fidati ed esperti, quasi tutti si attaccano a Internet, c’è una sete di sapere che ci impedisce di portare la pazienza necessaria ad incamerare le nuove nozioni e capire quale sarà la reale prospettiva, nostra e dei nostri figli».
In questa fase i sentimenti più ricorrenti sono terrore puro, grande confusione. Dolore. «Bisogna iniziare un percorso di accettazione della situazione e trovare i punti fermi a cui ancorarci nei momenti di sconforto. La condivisione tra famiglie, in questo contesto, è qualcosa di fondamentale, ci mostra il possibile futuro e ci aiuta a dare il giusto collocamento a tutto ciò che sta capitando nelle nostre vite». Monica, infatti, si è chiesta più volte «perché proprio a noi» e «cosa ha fatto mia figlia per meritarselo» e, grazie all’amicizia con Barbara, mamma di un bambino con la stessa patologia due anni più grande di Martina, si è avvicinata all’AIBWS (Associazione Italiana Sindrome di Beckwith-Wiedemann), di cui ora è amministratrice.
Agli altri neogenitori che si trovano ad affrontare la diagnosi dice: «Questa sindrome non è una passeggiata. Sicuramente ci sono casi molto più gravi di Martina, ma rispetto a tante malattie che ho potuto vedere negli ospedali, mi scappa da dire che siamo fortunati ad avere questa. E credetemi, non è una bugia, ma solo una piccola esagerazione. Siate forti, per voi e per i vostri figli. Con il tempo verranno la conoscenza e la coscienza. Nel frattempo, se volete, potete contare su me e su tutti gli altri dell’Associazione per due parole di conforto, sconforto, risate, consigli e anche lacrime».
Il presente servizio è stato pubblicato da «pro.di.gio.», rivista dell’Associazione Prodigio di Trento. Viene qui ripreso – con minimi riadattamenti dovuti al diverso contesto – per gentile concessione.
L’AIBWS (Associazione Italiana Sindrome di Beckwith-Wiedemann)
È nata nel 2004 dall’impegno di una mamma che sentiva la necessità di entrare in relazione con altre famiglie che stessero affrontando lo stesso percorso e che quindi potessero capirne la solitudine nell’affrontare qualcosa di mai sentito, la paura di non fare abbastanza o di fare troppo, di non essere in grado di aiutare e supportare il proprio figlio, insomma, di non essere un buon genitore.
Ad oggi, in Italia non esiste un registro dedicato alla sola sindrome di Beckwith Wiedmann, ma si stima che l’incidenza media sia di un bambino ogni diecimila nati vivi, con una percentuale di rischio più elevata in chi nasce da fecondazione assistita. Ad oggi l’AIBWS ha conosciuto più di 350 famiglie.
Dal 2011, l’Associazione ha costituito un Comitato Scientifico per effettuare nuovi studi, dotato anche di uno psicologo. L’accettazione di una diagnosi, infatti, è lunga, dolorosa e mai scontata. Quasi sempre, però, la parte emozionale viene messa in secondo piano a favore di quella clinica.
Altra pietra miliare dell’attività associativa sono i bambini e le bambine, che vengono accompagnati in un percorso di presa di consapevolezza di quanto sta succedendo al loro corpo attraverso i cartoni dedicati sul canale YouTube di AIBWS o progetti come il libro di Biwy’s Friends.
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