«C’erano una volta tre porcellini che si chiamavano Accessibile, Inclusivo e Sostenibile e vivevano con la loro mamma in una bella casetta al limitare del bosco»…
Se dobbiamo usare una metafora fiabesca su come evolve la cultura, o meglio parti di essa, nel mondo della disabilità, i tre porcellini si prestano bene. Intanto per la triade Accessibile-Inclusivo-Sostenibile, al posto di Timmy, Tommy e Jimmy, che è immancabile in ogni scritto o discorso sulla scena pubblica di questo periodo. Poi perché la morale della favola passa dalle parti di uno dei nodi più attenzionati del dibattito e assieme complesso e ambiguo, che è quel crocevia in cui vita indipendente, autonomia, progetto di vita, dopo di noi, empowerment, autodeterminazione, Convenzione ONU, antidiscriminazione, lotta all’abilismo, corpi non conformi, attivisti, influencer e youtuber disabili… si incontrano, scontrano, intrecciano, sovrappongono, ridefiniscono, dando luogo a quei «seduttivi immaginari e plausibili realtà» di cui parlano, a proposito delle famiglie con figli con disabilità, anche Roberta Caldin e Catia Giaconi nel loro volume Disabilità e cicli di vita (1).
L’intento didascalico della favola è evidente: invitandoli a crearsi una propria vita (simboleggiata dalla casa), la madre sprona i suoi figli porcellini a staccarsi da lei e a darsi da fare per diventare autonomi. Qui però entra in gioco l’edulcorazione disneyana del cartone animato che fa fuggire Timmy e Tommy nella casetta di mattoni di Jimmy, dove, assieme, “fanno fuori” il lupo. Nella versione originale inglese di metà Ottocento i primi due porcellini “il lupo se li pappa”, a simboleggiare che solo facendo le cose per bene si riesce ad andare avanti, sfuggendo alle lusinghe e ai travestimenti del lupo cattivo («…fammi entrare per favore…»).
Una mezza idea di come potrebbe chiamarsi il lupo (o i lupi… e non necessariamente cattivi) nella nostra rivisitazione ce l’ho, ma proviamo a discuterne assieme.
E per discuterne prendo a prestito quanto scrivono Francesca Pistone e Luca Negrogno nel loro bell’articolo Del Disability Pride di Bologna e delle sfide dell’attivismo oggi”, uscito in occasione del primo Disability Pride bolognese (2), facendo riferimento sostanzialmente alla prima parte del loro lavoro.
Sinteticamente, Pistone e Negrogno introducono il tema dell’attivismo nell’àmbito della disabilità, tra realtà internazionale e italiana, mettendolo in relazione con le culture e i modelli che nel tempo si sono succeduti (caritativo, medico, sociale) e con gli intrecci con altre realtà dell’attivismo, come l’ambito LGBTQ e quello della salute mentale, ad esempio (…e il femminismo, aggiungo io). Con il primo intreccio molto più praticato del secondo, almeno nella realtà italiana, per via del potere trainante delle dinamiche legate al corpo e al suo essere sessuato. Lo fanno avendo cura di storicizzare il tema e di delinearne anche alcune ombre, oltre alle luci, tramite l’apporto di una ricca bibliografia quasi interamente anglosasssone (3). Lo fanno soprattutto, e qui introduco uno dei nodi che mi stanno a cuore, senza cadere nell’errore della contrapposizione escludente tra vecchio e nuovo, che invece è a volte uno dei difetti più presenti nel manifestarsi dell’attivismo nostrano della/nella disabilità e del suo lessico.
Fanno bene inoltre i due Autori a ricordare che l’attivismo, e i temi ad esso connessi, fanno i conti anche con le dinamiche relative ai Nord e ai Sud del mondo e ai rischi che l’enfasi sulle discriminazioni, e su alcune di esse in particolare, nei Nord ricchi e acculturati, finisca per mettere in ombra le spaventose ripugnanti disuguaglianze che affliggono enormi masse di popolazione nel mondo (4).
Chi scrive non ha però onestamente la prospettiva e gli strumenti di un ricercatore, quindi mi limito pertanto ad enucleare alcuni punti che emergono nel panorama nazionale e che si ricavano, oltre che dalla mia personale esperienza, con tutti i limiti di questo, da quanto circola nell’informazione e nella comunicazione generalista e specifica del settore (quotidiani, settimanali, riviste, siti di informazione, newsletter, blog…) e che hanno a mio avviso, chi più chi meno, connessioni con la figura dell’attivista per come essa è e assieme viene rappresentata nell’informazione, oltreché con il tema della polarizzazione tra vecchio e nuovo nell’evolversi delle culture nella disabilità.
Procedo per punti, schematicamente e, mi rendo conto, anche in un ordine che non è necessariamente logico. Riprendendo anche da miei precedenti contributi apparsi su testate disponibili in rete (5).
La prima riflessione è sui rischi che corre la figura dell’attivista: a proposito di questo aspetto, per non inserire il tema nelle considerazioni più nostrane che potrò fare più avanti, ricordo come gli Autori citino le parole di un gruppo di ricercatori inglesi: «Al contempo, notano Berghs e altri, questo nuovo attivismo non è privo di critiche, rubricato da alcuni ad atto principalmente “online”, “cyber” o “digitale” poiché l’impatto quantitativo, o la vitalità online di una campagna, non sempre si traduce in un vero cambiamento. Sembra quasi, azzardano gli autori inglesi, che sia diventato di tendenza proclamarsi attivisti in termini di gestione dell’identità neoliberista, viatico di accesso alle risorse e marchio di virtù. L’attivismo è diventato un’altra merce su cui buttarsi, in termini di neoliberismo, offuscando così i confini tra consumismo, umanitarismo e resistenza».
Mi pare un rischio reale soprattutto riferito a quattro corni del problema. Da una parte l’accesso alle risorse, realizzato il più delle volte in maniera indiretta, intendendo per risorse non solo e non tanto gli aspetti economici, almeno in prima battuta, ma anche e soprattutto l’entrata in circuiti mediatici o politici, parrebbe più le donne nei primi e gli uomini nei secondi.
Altro rischio è quello citato del cosiddetto “marchio di virtù” per cui l’attivista con disabilità dice la “verità” in quanto tale, in quanto vive sulla propria pelle la disabilità; non esiste spesso (né nell’ambito di interviste né nella gestione delle comunicazioni online) contraddittorio, relativizzazione. Se non fosse irriverente… una sorta di “carne che si fa verbo” la cui icona è Bebe Vio in cima ai grattacieli, nelle pubblicità (6), quasi a sfidare il divino. Eroe per forza, riproponendo la regola del “nonostante” che esalta, ridefinendone l’identità, il “corpo non conforme” e al tempo stesso lo nega, nonostante, attaccato al forme, il non-con abbia sostituito il de.
Sottolinea giustamente Maria Cristina Pesci, medico psicoterapeuta e lei stessa persona con disabilità, «[…] come si possono coniugare aspetti quali il corpo, la disabilità, la diversità con la capacità di percepirsi adeguati e di investire di emozioni positive il movimento, le relazioni, l’“esistere”. Come trovare una possibile integrazione se ancora ci troviamo a sentir chiamare il corpo delle persone con disabilità come corpo non-conforme, anche dalle stesse persone con disabilità che si occupano di far valere i diritti di tutte/i?» (7).
Temi che si riattualizzano nell’era dei social, della comunicazione, dell’enfasi sulle discriminazioni, ma che hanno da sempre attraversato il dibattito, come dimostra un vecchio articolo di Cesare Padovani, persona con disabilità e professore di psicologia a Padova, …un attivista ante litteram, potremmo definirlo per certi versi, apparso sulla rivista «HP-Accaparlante» nel lontano 1990 (8).
Il terzo corno sono le forti attenzioni della politica, da destra e da sinistra (9), al tema della disabilità, che scorrono parallelamente a quelle del mercato e che, tra l’altro, hanno il loro anello di congiunzione soprattutto attorno alla parola “inclusivo”, diventata stucchevolmente traboccante in ogni comunicazione pubblica sulla disabilità.
Per ultimo va ricordato che nella cultura attuale della disabilità è unanime tra gli attivisti il ricordare che è necessario «…superare/abbandonare il classico modello medico» per un approccio, in linea con ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.] e Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, di tipo bio-psico-sociale. Nei fatti, e nella comunicazione e sue semplificazioni, alla fine troviamo molto “sociale” e qualcosa di “psico”, mentre il “bio” sembra sparire,, anche se in taluni aspetti permea di sé tra le righe, nel progressivo sedimentarsi delle culture, anche parte di ciò che è sociale o psicologico.
Questo capita un po’ per motivi ideologici, e non apriamo qui la parentesi in materia – pur se interessantissima -, ma anche molto per mancanza di conoscenze su quella che è la cultura sanitario/riabilitativa e la sua storia che non è certo ferma agli Istituti e alle ferraglie ortopediche “che volevano raddrizzare i corpi” degli Anni Cinquanta/Sessanta. Càpita che gli operatori sanitari, nei loro percorsi formativi, entrino in contatto, chi più chi meno, con le discipline sociali e soprattutto, e in particolar modo in alcuni territori, ne respirino quotidianamente il clima, dato il peso del sociale nelle politiche e nella cultura di quei luoghi. Non càpita in egual misura il contrario per molti degli operatori sociali, probabilmente più per le/gli assistenti sociali che per gli educatori/ici che, salvo lavorino in servizi dedicati specificatamente alla disabilità, hanno ben poche occasioni per entrare nel merito del rapporto tra deficit e sviluppo sensomotorio… limitandoci qui a parlare dei bambini con disabilità. Questo lo sottolineo non perché pensi che ci si debba mettere a dissertare di metodi riabilitativi, protocolli neuropsichiatrici o altro, ma perché una cultura che tiene conto anche degli aspetti sanitari e di ciò che ne fa da sfondo, impatta ovviamente sulla nostra visione di questi temi.
Le stesse tematiche, anche se in un contesto diverso, le troviamo all’interno del tessuto associativo della disabilità (intendendo sia l’associazionismo vero e proprio che i fenomeni di attivismo), nelle sue dinamiche evolutive nel continuo lavoro di spola tra sanità e sociale e nel suo polarizzarsi, a volte, alla luce dei dati anagrafici o delle diverse realtà territoriali, tra il non occuparsi per niente di aspetti sanitari o, al contrario, farsi esso stesso parte del sistema e del dibattito sanitario-riabilitativo.
Non è certo un caso – e qui faccio una digressione storica riferita alla città dove sono nato e abito che è Bologna -, che la stagione di punta sulla disabilità (Anni Ottanta, grosso modo), in cui pur tra limiti e difetti si è dato corpo concretamente ad un approccio bio-psico-sociale, ben prima di ICF e Convenzione ONU (che non arrivano dalla luna…), sia stata contrassegnata da Assessori alle Politiche Sociali (Politiche Sociali, non Sanità…) che erano entrambi medici neuropsichiatri (Eustachio Loperfido e Alessandro Ancona).
Una seconda riflessione è dedicata al termine “attivista” e al suo imporsi sulla scena. Anche qui potremmo ritornare alla nostra favola e cominciare con «…c’erano una volta tre porcellini che si chiamavano attivista, militante e volontario».
Qual è la figura che occupa lo spazio tra cittadini e politica e quali sono le dinamiche che incarna, le retoriche che attiva? Dal crollo del muro di Berlino e da Tangentopoli (primi Anni Novanta), questa domanda è uno dei temi centrali della lunga fase di crisi e spaesamento della cosiddetta “sinistra” e di ridefinizione identitaria di quella terra di mezzo che assume via via nomi diversi: società di mezzo, prepolitico, società civile, corpi intermedi, associazionismo, terzo settore, cittadinanza attiva (e altri se si passa dal dibattito politico/sociologico a quello economico), parola magica che definisce il terreno dove avviene qualcos’altro di magico; la “partecipazione” su cui molto ci sarebbe da riflettere su vecchie e nuove forme, lessici…seduttivi immaginari.
Cominciò Marco Revelli con il passaggio tra militante e volontario descritto nell’ultima riga di Oltre il Novecento, edito da Einaudi nel 2001 (10), anche sull’onda di molte ricerche che indicavano il proseguire nel volontariato la precedente militanza politica (in Emilia Romagna il dato era allora il doppio delle media italiana) (11).
Poi la politica, riassestatasi dopo l’appello alla società civile degli Anni Novanta, nel 2012 richiama a sé i tanti accorsi a collaborare alle primarie del centrosinistra: «Sono militanti, non chiamateli volontari» (12). Passano alcuni altri anni, emerge chiaramente la questione giovanile e quella dell’antipolitica e nel 2018 nuovo cambio di paradigma con un nuovo arrivo sulla scena: «Il volontariato che cambia: addio militanza, benvenuto attivismo», che ha forse la sua data e il suo luogo di nascita con l’Expo di Milano del 2015 (13).
Tempi duri per il volontario e per il militante, anche per una riforma del Terzo Settore che bada più al volontario singolo che alle organizzazioni e per una partecipazione politica sempre più in calo.
L’attivista per ora pare in cima alla classifica e se ne afferma anche la superiorità identitaria. Teorizza Corinne Reier, chiamata a gestire una formazione nell’àmbito di iniziative di partecipazione civica a Bologna: «Nella visione di ActionAid l’attivista è quella persona che si attiva e mobilita all’interno della propria comunità (sia locale che globale) con l’obiettivo di realizzare il cambiamento attraverso la propria partecipazione e cittadinanza attiva. Il “lavoro” dell’attivista è strettamente politico, seppur non necessariamente partitico, e si fonda su un’attenta analisi del proprio contesto e delle disuguaglianze e dinamiche di potere che lo attraversano coinvolgendo l’intera comunità di riferimento. Per ActionAid il volontariato rimanda invece a delle dinamiche più top-down in cui la persona segue e supporta pezzi specifici del lavoro dell’organizzazione senza necessariamente contribuire a influenzarne la strategia più ampia» (14).
Luciano Tavazza e Giovanni Nervo, padri del volontariato “moderno” (quello, semplificando, che si occupa non solo di intervenire concretamente nelle situazioni, ma anche di agire politicamente sulle cause che stanno a monte dei problemi), si rivolterebbero nella tomba, ma in parte forse è solo un difetto, non di poco conto, di storicizzazione del tema.
Questo “frullare” delle tre figure tra di loro e assieme frullare sull’asse società civile/politica è una dinamica di estremo interesse, ma anche oggetto di molteplici “con-fusioni” cui anche la figura dell’attivista concorre.
La disabilità vive indubbiamente una fase di transizione, con il rischio spesso che non si parli di disabilità, ma della rappresentazione che i media, social e non, generalisti e specializzati, danno delle stessa tutta, o quasi, ancorata soprattutto al tema dei diritti/discriminazione, di chi incarna questo tipo di lettura (non solo le Associazioni legate di più al politichese, ma soprattutto gli attivisti) e dei modelli che mette in campo in una certa misura mutuati dal femminismo e dal settore LGBTQ. Non a caso ci sono molte attiviste donne e pochi uomini, e non a caso, nuovamente, dato che uno dei temi centrali, come già ricordato, è il corpo.
Va detto che quello degli attivisti (ora anche youtuber, influencer, blogger nel loro ibridarsi con le forme della comunicazione) non è un mondo omogeneo, ci sono infatti stili e lessici anche profondamente differenziati, con modi e forme comunicative e contesti da cui o di cui si parla molto diversificati, anche tra le donne e gli uomini che ne compongono il panorama. La cosa non è tuttavia evidentissima se ci si limita alle apparizioni televisive o sui giornali patinati, dove ha accesso chi presenta anche caratteristiche di personaggio, al di là della significatività dei temi che pone al dibattito e del lessico con cui li declina.
La terza riflessione è dedicata al rapporto tra attivismo, associazionismo e rappresentanza. Detta diversamente la riflessione sul “doppio binario”.
Questo è il nodo forse più complicato e chiedo scusa anticipatamente delle poche chiarezze che potranno emergere da questo scritto con il quale si vuole solo portare pezzi di riflessione al dibattito innescato da quanto scritto da Pistone e Negrogno e da chi è da loro citato. Dibattito che è ancora molto sotto traccia in Italia e anche nella città dove vengono scritte queste righe.
Occorre fare tre premesse a questa terza riflessione.
Prima premessa: informazione, politica, cultura, c’è un gran “frullo” nel mondo della disabilità. Attenzioni politiche, da destra e da sinistra, che da tempo non si vedevano. Complici anche il Covid e lo sparire dalle narrazioni mediatiche, salvo gli ultimissimi mesi con Cutro e Lampedusa, dei corpi altri dei migranti. La disabilità da alcuni anni “serve” alla politica, ad una parte in particolare, anche come contraltare ai target sociali “cattivi” (migranti e rom in primis… ma anche senza dimora che provocano degrado, malati mentali pericolosi, giovani devianti nelle baby gang e nei rave party, tossicodipendenti, senza casa, carcerati… vedi martellamento nei talk show serali di un’emittente come Rete4), tanto da istituire un Ministero ad hoc, guidato in entrambi le versioni da esponenti della Lega che, va sottolineato a onor del vero, in tutte due le edizioni va sostanzialmente in continuità culturale con i governi precedenti, “sfidandoli” quindi politicamente sul loro stesso terreno (diritti civili, autonomia, Convenzione ONU, ICF, protagonismo delle persone con disabilità e delle relative organizzazioni, accessibilità, innovazione tecnologica, caregiver…).
Dentro a questo “frullo” anche un’importantissima riflessione culturale attorno al modo di intendere il concetto di disabilità, attorno agli spazi della socialità, e altro ancora, molto ancorata agli attivisti, che riporta al centro del dibattito, sullo sfondo dell’autodeterminazione, il tema del corpo come protagonista delle discriminazioni, mutuando, come già ricordato, pratiche e modelli organizzativi dal femminismo e dall’àmbito LGBTQ. Una riflessione che ha delle parole chiave: autonomia, autodeterminazione, vita indipendente, accessibilità, lotta all’abilismo, intersezionalità…
Eppure dentro a questo fervore, dentro ad un protagonismo, dentro alle promesse di una vita indipendente e alla richiesta di un proprio progetto di vita,, vedo balenare a volte anche il rischio di trarne considerazioni affrettate, e depotenziare così il processo culturale in corso, per capitalizzare in fretta consenso e mercato. Consenso politico e mediatico, da una parte, e “mercato della non autosufficienza” dall’altra, nel mantenere gli anziani consumatori per più tempo (…visto che detengono la maggior parte della ricchezza) e recuperare al mercato, …ai brand inclusivi, almeno le persone con disabilità motoria (in particolare quella acquisita), già precedentemente consumatori. L’idealtipo può essere considerato l’atleta paralimpico, considerato nella sua sfera privata, o il disabile travel-blogger che in quanto tale annulla gli immaginari di immobilità e silenzio.
Per la seconda premessa ricorro ad un altro scritto di Luca Negrogno: «Le questioni poste dall’autodeterminazione individuale, se non vogliamo che restino solo un infinito lavoro soggettivo legato alle possibilità competitive di sopravvivere, devono essere ricondotte in un nuovo piano di azione pubblica, informata ad una epistemologia ecologica. I territori, la cooperazione sociale, lo scambio e il confronto polifonico tra esperienze e saperi, sono la base da cui partire per informare un nuovo modello di presa in carico condivisa delle nostre condizioni di esistenza, al di fuori di un modello produttivistico, prestazionale, che inevitabilmente deve sciogliere ogni legame con la ricerca individualistica del profitto come unico mediatore simbolico generale della convivenza, tra umani e con le altre specie» (15). E qui si torna alle considerazioni sui Nord e i Sud del mondo di cui accennavamo prima, considerazioni anche queste non nuove nell’àmbito della disabilità come testimonia uno scritto di Giampiero Griffo del 2015 (16).
La terza premessa, già in parte evocata in quanto scritto in precedenza, sta nel complesso intrecciarsi tra politica, cittadinanza e terzo settore (qui chiamato a rappresentare la cosiddetta società civile) che tende a ridisegnare, rigenerare, rimodellare il rapporto tra politica e cittadini, tra stato e società, nell’era dell’astensionismo, della crisi dei partiti, dei sindacati, della disintermediazione, dei populismi, dell’enfasi sul senso di comunità, della tentazione, che emerge qua e là, sulle e tra le righe, di creare nuove forme di consociativismo (vizio che una volta era più diffuso a sinistra, ma ora parrebbe praticato anche a destra), più in linea con le sensibilità e i linguaggi del tempo, all’interno delle dinamiche partecipative che si vanno ad intrecciare con le fragilità che spesso emergono nella democraticità e nei processi di rappresentanza delle organizzazioni della società civile.
In generale, e non specificatamente parlando solo di disabilità, gli esempi di queste dinamiche possono essere tanti e anche estremamente diversificati nel tempo e nelle diverse realtà territoriali. Si va dalla sostanziale logica cooptativa della politica nei suoi appelli elettorali alla società civile, alle modalità spesso antitetiche di gestire la rappresentanza delle sue diverse componenti nei Forum del Terzo Settore. Dalle Associazioni presiedute da Parlamentari chiamate ai Tavoli di confronto col Governo a quelle che vedono candidato al Parlamento il proprio Presidente che non pensa di dimettersi e, una volta non eletto, resta al suo posto. Ancora il fenomeno delle “holding”, ovvero gruppi che si articolano formalmente sotto più vesti (sono parallelamente Cooperativa, e/o APS, e/o OdV, singolarmente o all’interno di cartelli) o che si danno strutture di rete, non perché le pratichino realmente e ne incarnino i valori, ma in funzione delle dinamiche applicative della Riforma del Terzo Settore. Vedi la recente “corsa” a creare reti che garantiscono finanziamenti ad hoc e accesso alla rappresentanza.
Vizi privati e pubbliche virtù? Nulla di nuovo, ma tra disintermediazione e vizi privati la “società di mezzo” non se la passa sempre bene.
Dentro a queste tre premesse bollono migliaia di questioni tutte sospese sostanzialmente tra un non più e un non ancora e in cui poco o molto l’attivista è coinvolto, pur nella sua “dimensione associativa” atipica.
Più appetibile a sinistra l’attivista (…fa anche quasi rima…) e il rischio è quello di farsi parte protagonista di una logica del “doppio binario” in cui, dentro la dicotomia vecchio/nuovo, due filoni culturali scorrono parallelamente, sospesi tra servizi e diritti, tra integrazione e discriminazione, tra attivisti e associazioni, tra tessere e followers, tra un “prima” e un “dopo”… doppi binari molto più probabili là dove, nei territori, negli ultimi venti/venticinque anni, meno si è lavorato sull’evoluzione dei servizi (pur dentro una generalizzata esiguità del dibattito nazionale), sulla relazione con le punte più avanzate culturalmente del movimento associativo e del mondo della disabilità, sulla necessità di saperi interdisciplinari, sul collegamento con le Università dopo la stagione d’oro degli Anni Settanta-Ottanta, sulla reale collaborazione e scambio tra Pubblica Amministrazione e tessuto associativo, consci delle diverse identità e finalità (a lato e oltre le ombre della Riforma del Terzo Settore), sull’evoluzione dei modelli e delle composizioni associative e relativo tema della rappresentanza, tema sempre spinoso e non privo di ambiguità nel Terzo Settore e dentro questo tra le sue varie componenti (17).
Un “non più/non ancora”, stante l’inevitabile dinamica tra le diverse generazioni, che è anche fatto di incontri e scontri attorno a categorie, per fare alcuni esempi, come quelle già citate in precedenza, a cui per certi versi possiamo aggiungere “uomo vs donna”, “politico vs personale”, “bollettini e riviste associative vs articoli su «Vanity Fair» e altro. Mi pare che all’oggi governino il dibattito, almeno quello pubblico, più le seconde che le prime e il tutto innerva quel doppio binario di cui sopra.
Mi accorgo di avere già scritto tanto e mi limito a dei titoli, tagliati con l’accetta, e a degli interrogativi su cui confesso non ho alcuna certezza granitica perché anche chi scrive sta dentro a dinamiche di transizione, di età, di ruolo, culturali:
° disabili unici “buoni” rimasti su piazza VS immigrati/rom/tossicodipendenti/senza dimora/carcerati/minori devianti, tutti “cattivi”?;
° se è valida l’equazione degli “ultimi buoni e meritevoli”, quale la osizione della rappresentanza della disabilità verso la visione più complessiva delle politiche sociali (povertà, sicurezza, devianza, assistenza, salute…) e non solo sullo specifico della disabilità?;
° attivisti donne VS attivisti uomini? Essendo uno dei centri del dibattito il tema del corpo disabile e del suo essere e stare nel mondo… non c’è gara?;
° attivisti VS associazioni, profilo facebook VS elenco soci? Si crea un’“élite della disabilità”, in gran parte legata a persone con deficit motorio, in misura minore sensoriale, che integra/sostituisce il vecchio modello della somma dei presidenti nazionali? (Detta diversamente: il potere passa dai padri ad una parte dei figli?);
° se e come fare sintesi tra le diverse forme di rappresentanza nel/del mondo della disabilità tra associazioni, federazioni (che non sono la semplice somma di più associazioni e la cui capacità di rappresentanza ha anche forti differenze tra territorio e territorio), attivisti?;
° Ministero VS Osservatorio Nazionale sulla Disabilità?;
° il vero del detto VS il vero dell’incarnato?;
° Accessibilità e discriminazione VS servizi sociali?;
° realtà della disabilità VS rappresentazione della disabilità?
Un finale, dunque, che è tutto interrogativo e in cui si naviga a vista tentando di riconoscere ciò che è seduttivo immaginario e ciò che è plausibile realtà, cercando una sintesi che crei condivisione.
E da ultimo un ringraziamento a Francesca Pistone, a Valeria Alpi e a Simona Ferlini per le interlocuzioni e gli scambi preziosi di vedute su queste tematiche e a Luca Negrogno e Maria Cristina Pesci per le citazioni prese a prestito.
Il presente approfondimento, con diverso titolo, è apparso per la prima volta sul blog “Una certa idea di…” dell’Istituzione Gian Franco Minguzzi della Città Metropolitana di Bologna. Lo si ripropone qui, per gentile concessione, con una serie di modifiche e integrazioni dovute al diverso contenitore.
Note:
(1) Roberta Caldin, Catia Giaconi (a cura di), Disabilità e cicli di vita, FrancoAngeli, 2022.
(2) Francesca Pistone, Luca Negrogno, Del Disability Pride di Bologna e delle sfide dell’attivismo oggi, in blog Una certa idea di…, Istituzione Gian Franco Minguzzi, 30 settembre 2022.
(3) Sono solo 3 i contributi italiani sui 26 segnalati. La bibliografia è tratta in buona parte dalla rivista inglese «Disability & Society» che al momento attuale (banca dati ACNP), non pare posseduta da nessuna biblioteca italiana, a riprova del ristretto perimetro del dibattito al momento. Non mancano tuttavia anche attenzioni italiane a queste tematiche e a questi approcci, al di là dello specifico dell’attivismo, come le riviste «Minority Reports», edita da Mimesis, «Univers@bility» promossa dall’ANFFAS (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo) ed edita da Vannini, «Italian Journal of Special Education for Inclusion». Citiamo anche gli interessi su questi àmbiti della rivista «AM-Antropologia Medica» o della casa editrice dell’Università Roma Tre. Tra gli autori, fra i tanti, Ciro Tarantino e Alessandra M. Straniero. In tema di correlazioni tra femminismo e disabilità, altro àmbito ampiamente praticato, i molteplici contributi di Simona Lancioni in «Superando.it» e nel sito di Informare un h-Centro Gabriele Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e di Maria Giulia Bernardini. E se proprio volete esagerare nell’aprirvi a nuovi orizzonti culturali, un occhio su quanto producono, a volte anche in tema di disabilità, le riviste online «Ibridamenti/Due», «MeTis» e «Pedagogia delle Differenze», lo darei.
(4) La letteratura in materia è vastissima. Tra le cose più recenti: Federico Rampini, Suicidio occidentale, Mondadori, 2022; Michael Walzer, Una sinistra senza operai?, in «Una Città», n. 288, novembre 2022.
(5) Andrea Pancaldi, Quale rappresentanza per la disabilità?, in «Superando.it», 12 febbraio 2020; Id., Caregiver, uno “sguardo strabico” sulla cura, in blog Una certa idea di…, Istituzione Gian Franco Minguzzi, 21 gennaio 2022; Id., Di corpi in cima ai grattacieli, Ibid., 11 aprile 2022.
(6) Spot Sorgenia.
(7) Maria Cristina Pesci, Vivere e amare il proprio corpo, Effeta, Fondazione Gualandi, n. 1, 2023.
(8) Cesare Padovani, D come diversità, in «HP-Accaparlante», novembre-dicembre 1990; cfr. anche Andrea Pancaldi, Cesare, Bibì e Bibò e la leggerezza dell’handicap, in «Superando.it», 28 gennaio 2016; Non c’è niente di peggio di diventare subito “merce”: le lettere di Pier Paolo Pasolini al giovane paraplegico, in «Pangea», agosto 2018.
(9) Per la destra il tema dei disabili “ultimi buoni del sociale rimasti” a fronte dei tanti “cattivi” (migranti, rom, carcerati, senza casa, baby gang e rave party) e del Ministero a guida Lega. Per la sinistra il tema disabili e diritti civili… e relative battaglie, in sinergia con l’area femminista e delle persone LGBTQ, attorno a temi come l’accessibilità, le differenze di genere, la sessualità, l’abilismo, le discriminazioni…
(10) Simonetta Fiori, Il Militante diventa Volontario, in «la Repubblica», 26 gennaio 2001.
(11) Andrea Bassi, Sandro Stanzani, Il volontariato in Emilia Romagna, FIVOL, Roma, 1997.
(12) Andrea Cardoni, Giulio Sensi, Sono militanti non chiamateli volontari, in «Vita», 30 novembre 2012.
(13) Stefano Laffi, Il volontariato che cambia: addio militanza, benvenuto attivismo, in «cheFare», 1° agosto 2018; Maurizio Ambrosini, Volontariato post-moderno, FrancoAngeli, 2016.
(14) Cfr. a questo link.
(15) Luca Negrogno, Partecipazione e potere nei servizi di salute mentale, in «Ibridamenti/Due», 15 marzo 2022.
(16) Giampiero Griffo, Disabling processes e giustizia sociale, in «Minority Report», 1, 2015.
(17) Si pensi alle mutazioni in atto nel terreno della disabilità che vanno oltre il classico modello associativo (organizzato in base alla patologia di riferimento e governato sostanzialmente dai familiari, con la presenza di qualche persona con disabilità “eccellente” e qualche ex operatore o amministratore), con l’aumento delle Associazioni governate sostanzialmente da operatori, l’agire degli attivisti che hanno nei loro profili social e nel numero dei follower la loro dimensione “associativa”, le ibridazioni associative con i mezzi della comunicazione e con le figure professionali (fare associativo come enzima del fare professionale), le “holding”, ovvero gruppi che formalmente sono al tempo stesso Cooperativa, e/o APS, e/o OdV a seconda dell’opportunità con cui presentarsi, da soli o dentro a cartelli. E ancora i modelli a funzione “associativa” promossi dal mercato stesso a supporto delle proprie strategie nell’àmbito dei processi della cosiddetta diversity inclusion (“valorizzazione” delle diversità nei luoghi di lavoro come strategia di marketing, brend inclusivi). Soffermandosi un attimo sul modello classico e schematizzando brutalmente, esso ha avuto tre stagioni. Quella degli Anni Cinquanta/Sessanta caratterizzati da Associazioni articolate su scala nazionale di chi “aveva ben meritato nei confronti dello Stato” (invalidi di guerra, del lavoro, per servizio…) e dalle Associazioni per le disabilità sensoriale eredi dei vecchi istituti per sordi e ciechi. Quindi le Associazioni Anni Settanta/Ottanta figlie del Sessantotto e delle lotte in àmbito psichiatrico, della riforma sanitaria, della territorializzazione dei servizi, quelle della “deistituzionalizzazione, integrazione scolastica”, a carattere nazionale o locale, attente al sociale e non più solo al sanitario o al previdenziale. Infine, le Associazioni Anni Novanta/Duemila, sorte spesso a fianco di reparti di ospedale o centri clinici specializzati, in funzione della specializzazione e segmentazione delle diagnosi e dell’interesse per patologie nuove impostesi, per vari motivi, sulla scena (autismo, varie tipologie di sclerosi, disturbi dell’apprendimento, malattie rare…) e dotatesi di testimonial per la raccolta fondi. Poi con il 2000 le mutazioni non sono più solo interne al mondo della disabilità, ma si “con-fondono” in parte con le dinamiche del Terzo Settore e in funzione anche dell’agire delle Federazioni nazionali e del loro essere “parte sociale” nei livelli regionali e nazionali pur con livelli di rappresentanza, a volte, con forti differenze quantitative e qualitative nei diversi territori.
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