Ora Madrid è più vicina

Sembra proprio che il concetto di discriminazione - così difficile da far percepire sulle grandi questioni (scuola, lavoro, salute) - diventi immediatamente comprensibile alla grande platea degli appassionati di calcio, il più grande "romanzo nazionalpopolare" che si possa immaginare. È quanto si deduce dalla "battaglia di primavera" vinta da Franco Bomprezzi, per far sì che anche le persone con disabilità possano andare a Madrid, il 22 maggio, ad assistere alla finale di Champions League tra Inter e Bayern Monaco. Un piccolo passo del lungo percorso necessario a sdoganare la disabilità come una condizione normale e possibile dell'esistenza

Franco BomprezziLa mia piccola “campagna di primavera” [se ne legga nel nostro sito, al testo intitolato Voglio andare a Madrid, ma…, cliccando qui, N.d.R.] ha portato a un ottimo risultato: da oggi i tifosi disabili dell’Inter possono sperare di trovare posto nello stadio Santiago Bernabeu di Madrid, per assistere il 22 maggio prossimo alla finale di Champions League fra l’Inter e il Bayern Monaco.
Nel sito della squadra nerazzurra, infatti, sono ben visibili, a partire dall’home page (cliccare qui), le informazioni per chiedere uno dei 41 posti disponibili, 32 per sedie a rotelle, 9 per disabili deambulanti. Da oggi fino alle 18 di venerdì 14 maggio è possibile inviare una semplice mail con i propri dati e l’Inter si impegna a contattare direttamente per fornire informazioni più precise. Un ottimo e tempestivo lavoro, un’attenzione e una sensibilità che vanno sottolineate, come è giusto.
Certo, i posti sono pochi, ma prima di questa piccola “battaglia di primavera” le informazioni erano del tutto assenti e da quello che si poteva intuire, l’accessibilità dello stadio spagnolo è comunque quella che è, cioè scarsa rispetto a san Siro, scarsa in assoluto. Tuttora non è chiaro come siano e dove siano questi posti destinati a ospitare i tifosi con disabilità, ma questo fa parte del piccolo rischio che ci si assume decidendo di tentare l’avventura del viaggio, pur di essere lì, testimoni oculari – e non solo attraverso uno schermo o un maxischermo – di un evento del tutto unico (soprattutto per l’Inter, visto che sono trascorsi ben trentotto anni dall’ultima finale disputata, e ancor di più dall’ultima vittoria, in bianco e nero, non nel senso della Juve, ma del colore in tivù).
Non sono dunque ancora sicuro, personalmente, di essere uno dei fortunati alla “lotteria degli accrediti”, ma quanto meno ho questa possibilità e come me ce l’hanno tutti coloro – e sono tanti – che si sono dati da fare in questi giorni animati dal medesimo sogno. Vedremo. Se sarà possibile (ho già inviato regolarmente la mia mail), riuscirò dunque a raggiungere Madrid in auto, via Barcellona (è questa la mia idea di “viaggio epico”…), e tornare indietro spero carico di bei ricordi…

In questo momento, però, sono comunque contento di aver vinto, insieme a «Vita.it» e a «Corriere.it», questa battaglia di comunicazione. Non solo per il suo aspetto pratico, che è sotto gli occhi di tutti, ma perché in pochi giorni è stato possibile – attraverso questo argomento apparentemente minore – diffondere nei siti internet, nei blog, su facebook, in radio e in televisione, un messaggio duplice. Prima di tutto quello relativo al diritto sacrosanto di una persona con disabilità ad assistere liberamente a un grande evento sportivo, senza condizionamenti, senza se e senza ma.
In secondo luogo, mi è stato possibile allargare il discorso al punto di osservazione del mondo, da parte delle persone con disabilità. Il concetto di discriminazione – così difficile da far percepire sulle grandi questioni (scuola, lavoro, salute) – diventa immediatamente comprensibile alla grande platea degli appassionati di calcio e il gioco del pallone è il più grande romanzo nazionalpopolare che si possa immaginare. Parlare di calcio, come ho fatto sere fa a Telelombardia, assieme ai consueti animatori di un programma assai seguìto, vale molto di più di una semplice “ospitata” in un programma a sfondo sociale, relegato in un piccolo ghetto, come ha notato in queste ore acutamente il presidente della LEDHA(Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità) Fulvio Santagostini.

È questo il passaggio culturale ancora mancante, in buona misura. Io sono giornalista professionista dal 1984 e ho sempre lavorato, da free lance o in redazione, su tutto, non solo sulla disabilità. Ma quando si tratta di apparire, specialmente in tivù, di me si coglie solo la competenza, come dire, “esistenziale”, legata alla mia incontrovertibile appartenenza al genere delle persone con disabilità. Come se le colleghe giornaliste dovessero sempre e solo parlare di problemi femminili (e infatti per lungo tempo è andata così).
Sdoganare la disabilità come una condizione normale e possibile dell’esistenza è dunque la seconda parte di un percorso culturale e sociale difficile e lungo. Non so se mi basterà una vita, di certo continuo a provarci, e spero tanto che altri, più giovani, raccolgano il testimone e vincano la nuova, più importante, battaglia.
Intanto mi pregusto (con relativi scongiuri) il viaggio e la partita di Madrid. Grazie anche a tutti gli amici che hanno testimoniato la loro vicinanza e solidarietà. Andiamo avanti.

*Testo apparso anche in «FrancaMente», il blog senza barriere di Vita.blog, con il titolo Madrid è più vicina.

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