«Leggendo l’intervista pubblicata da Superando.it al sottosegretario alla Giustizia Daniela Melchiorre – ci scrive il nostro collaboratore Giorgio Genta della Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi) – avrei qualche riserva da esprimere rispetto a quando si parla dei cosiddetti “viaggi della speranza”. Infatti, e mi riferisco specificatamente al campo delle lesioni cerebrali nell’età evolutiva, troppo facili e frequenti sono le diagnosi del tipo “non c’è nulla da fare”, emesse con saccente sinecura da parecchi professionisti del Servizio Sanitario Nazionale (non da tutti, naturalmente, ve ne sono anche di ottimi!) e la storia di molte delle nostre famiglie indica che, cercando bene, c’è spesso “qualcosa da fare” di utile. Certo costa umiltà, lavoro, pazienza e (spesso) soldi, ma di gratis a questo mondo, consigli a parte, c’è ben poco!».
Ben volentieri, dunque, cediamo la parola allo stesso Genta.
Assai antica è la metafora del viaggio come percorso di ricerca di noi stessi e di quello che a noi manca o è incompiuto o imperfetto. Particolare categoria di questi viaggi sono quelli “della speranza” o meglio di chi speranza non dovrebbe avere.
Alcuni di questi viaggi hanno una connotazione di fede e tale aspetto garantisce un certo riguardo agli occhi di chi ne scrive. Ad altri la veste laica non assicura lo stesso privilegio e vengono generalmente presentati dalla stampa come puri e semplici meccanismi di estorsione a danno di quei poveri pazienti sprovveduti (e delle loro famiglie), vittime di un offuscamento del raziocinio provocato dalla disperazione.
Riconosciamo pure che purtroppo vi è sempre stato chi succhia il sangue (soldi) a chi ormai di sangue ne ha assai poco, ma chiediamoci anche perché esistono tali viaggi della speranza e se davvero sono sempre da considerarsi “senza speranza”.
Alla prima domanda crediamo di poter rispondere con una certa tranquillità: il cittadino malato o con disabilità intraprende tali viaggi perché ove vive non trova o crede di non poter trovare quello che cerca, cioè la miglior terapia possibile per il suo male, malattia o disabilità che sia. Egli riscontra quindi una carenza di servizi o non riesce ad accedere a sufficienti informazioni sui servizi stessi.
Esistendo tale carenza – e molti di noi possono testimoniare che esiste – dovrebbe naturalmente essere compito degli amministratori pubblici porvi rimedio e altrettanto vale per l’impossibilità o la difficoltà di accedere alle giuste informazioni nel momento giusto.
Il secondo quesito porta invece ad indagare motivazioni più complesse: il servizio ricercato può esistere, ma non dare le risposte che da esso ci si attende; non la promessa dell’impossibile, ma la ricerca dei limiti del possibile, anche nei casi più difficili e gravi, che spesso nella ASL “vicino a casa” (alla quale ogni cittadino dovrebbe legittimamente rivolgersi), generano “brevi viaggi nella disperazione” perché il responso di non pochi professionisti è un lapidario «non c’è nulla da fare», con un sottinteso augurio di una fine veloce.
Questa mancata ricerca del possibile in campo terapeutico o riabilitativo può generare “viaggi della speranza”, basati su una motivazione ragionevole: verificare di persona se tra il ciarpame pseudoscientifico esistono perle di verità nascoste, capaci di mantenere accesa la fiammella vitale delle nostre esistenze.
E non è forse la storia della medicina (scienza imperfetta ed empirica per definizione) ricca di esempi in tal senso?
La nostra ideale agenzia di viaggi si chiamerà dunque “viaggi della ragionevole speranza”?
*ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi) – Federazione Italiana.
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