Il 17 novembre scorso sono stati presentati a Bologna i primi dati dell’indagine Donne, disabilità e lavoro [il nostro sito ha parlato dell’evento nel testo disponibile cliccando qui, N.d.R.] e, a quel che risulta, in Italia è stata fatta solo un’altra indagine su questa tematica, promossa dall’ANMIL (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro), in collaborazione con l’INAIL (Istituto Nazionale Infortuni sul Lavoro).
Un dato, questo, già di per sé sufficiente a rendere interessante il lavoro di ricerca realizzato a Bologna e promosso dall’Ufficio Consigliere di Parità della provincia di Bologna, in collaborazione con la UILDM bolognese (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il contributo del CERPA Italia (Centro Europeo di Ricerca e Promozione dell’Accessibilità) e di alcune altre associazioni: l’AISM (Associazione Italiana Sclerosi Multipla), l’AIAS (Associazione Italiana Assistenza Spastici) e l’ANIEP (Associazione Nazionale per la Promozione e la Difesa dei Diritti Civili e Sociali degli Handicappati).
L’altro elemento di interesse riguarda una scelta metodologica orientata più al comprendere che al misurare. Infatti l’indagine è stata realizzata attraverso cinquanta interviste narrative rivolte ad altrettante donne con disabilità motoria (di età compresa tra i 23 e i 73 anni).
La scelta di tale metodo consente di indagare a fondo gli argomenti proposti, favorendo l’emersione del vissuto individuale dell’intervistato, la sua personale prospettiva, le motivazioni, la storia di vita.
Il limite di questo approccio consiste invece nel fatto che tra i soggetti coinvolti nell’intervista si deve instaurare un rapporto di fiducia tale da favorire il maggior grado di libertà espressiva da parte dell’intervistato.
Nella ricerca in esame questa fiducia è stata conquistata grazie alla presenza della UILDM, come ha ben spiegato nel suo intervento introduttivo Lucia Lella, vicepresidente della Sezione bolognese.
Il lavoro ha cercato di indagare tutti gli aspetti connessi al tema individuato, rilevando dati sull’accesso al lavoro, sui cosiddetti inserimenti mirati, sul trasporto, sulla flessibilità e la possibilità di conciliare i tempi e le esigenze del lavoro con quelli della vita, sulle barriere architettoniche, il sostegno psicofisico, l’assistenza sociale e sanitaria e così via.
L’analisi dei dati è stata invece affidata a diverse professioniste: Rita Bencivenga – coordinatrice di CIAO!Women (Communication via It for Adults On Line:Women), un progetto di ricerca cofinanziato dall’Unione Europea sull’analisi degli stereotipi legati alle donne e alla loro percezione della tecnologia, oltre che membro del CERPA e attiva in progetti che trattano le tematiche di genere, la disabilità e il mainstreaming – ha curato il report complessivo dell’indagine; Giovanna Cantoni, dell’Università di Bologna, ha analizzato gli aspetti inerenti l’istruzione; Piera Nobili, infine, architetto e presidente di CERPA Italia, ha riflettuto sulle barriere ambientali (spazi lavorativi, arredi, attrezzature, trasporti ecc.).
Per ragioni di sintesi ci limiteremo qui a fornire solo alcune fra le considerazioni emerse, rimandando quanti fossero interessati ad approfondire al report conclusivo, presto disponibile presso la Sezione UILDM di Bologna.
Il documento finale complessivo è stato redatto assumendo come riferimenti teorici da un lato il pensiero femminile (con particolare attenzione alla filosofia della differenza), dall’altro il modello sociale della disabilità, quello che rigetta un’idea di disabilità intesa come problema (o tragedia) personale dell’individuo, per considerarla un processo nel quale la società ha responsabilità determinanti.
Rispetto a quest’ultimo aspetto, i livelli di consapevolezza delle intervistate variano molto. Per alcune, infatti, la disabilità è ancora un problema della persona: «[…] “no, no, se io non riesco a lavorare come voglio io, io mi ritiro”, e mi sono ritirata. Ho fatto la domanda, sono stati comprensivi […]»; per altre, invece: «[…] il problema non credo di essere io, ma le strutture».
Riguardo all’inserimento lavorativo le affermazioni sono assai critiche. Eccone alcune: «Per quanto riguarda più le progressioni verticali, la crescita professionale, il disabile è doppiamente penalizzato […]»; «È ovvio che poi in azienda ci sono più di 300 persone e se dovessero seguire tutti, non so, in realtà non sanno nemmeno se sono a lavorare oppure no, lo vedono dal cartellino che è timbrato o meno, ma se ho bisogno mi aiutano»; «Non c’è la disponibilità o l’apertura a rendere il disabile partecipe al suo processo di collocazione, per me sarebbe facile valutare cosa è accessibile o meno. Quando c’è qualcun altro a decidere per te queste cose – non è per cattiveria – c’è poca sensibilità e conoscenza».
In merito ai rapporti con i colleghi di lavoro, alcune intervistate evidenziano come, nel complesso, le aspettative nei loro confronti siano basse: «[…] ho notato la sorpresa quando ho fatto cose meglio di altri, quindi se c’è una sorpresa vuol dire che all’inizio c’è una bassa aspettativa».
Altre esplicitano poi come le difficoltà maggiori riguardino i rapporti con le altre donne: «[…] io mi sono sempre trovata meglio con gli uomini, tendono a sdrammatizzare, a non impuntarsi, le donne sono più tremende e tra noi tendiamo a sbranarci, c’è più competizione […]»; «Ritengo sia difficilissimo il rapporto con le donne e questo mi dispiace tanto perché noi saremmo molto più forti e dovremmo avere molta più complicità […] vorrei tanto che le donne fossero più unite».
Dall’analisi complessiva emerge ancora come queste persone siano nella realtà soggette a una forma di discriminazione non sempre intenzionale (assertive disablism), da alcune sminuita attraverso un atteggiamento comprensivo, da altre fotografata con crudezza: «La giornata dell’handicap, ma perché? […] guarda che noi siamo già sensibili. Fatti una giornata delle persone che non accettano l’handicap, ma no, fatti la giornata mondiale delle persone che non accettano che si può vivere anche in un’altra maniera».
In materia di istruzione viene evidenziato da Giovanna Cantoni come le donne più giovani abbiano usufruito dell’integrazione scolastica in misura maggiore rispetto alle intervistate più anziane e come la percentuale di coloro che hanno conseguito la laurea o il master aumenti col diminuire dell’età (queste ultime rappresentano un terzo del campione). E tuttavia va sottolineato come la scuola abbia delle grandi responsabilità nel non essere ancora riuscita a trasmettere competenze come saper collaborare e partecipare, ma anche saper convivere e confrontarsi con la diversità.
A ciò si aggiunga che quasi tutte le intervistate hanno avuto molte difficoltà a conoscere i loro diritti di cittadinanza e le informazioni utili a vivere più serenamente la propria condizione di persone con disabilità.
Anche sul versante delle barriere ambientali la situazione è abbastanza preoccupante, se si considera che i servizi sono ancora impostati con logiche assistenziali che favoriscono l’instaurarsi di rapporti di dipendenza dal contesto familiare e/o dalla rete amicale, e che sono tesi a tutelare alcuni bisogni considerati primari, ma non a garantire la possibilità di partecipare a tutte le attività e i servizi offerti dalla comunità di riferimento.
A tal proposito, e in conclusione, ci piace citare lo stralcio di un’intervista che brilla per eloquenza: «[…] è stato un po’ l’errore della mia vita quello di sopperire diciamo alla mancanza di autonomia con l’aiuto, con il sostegno delle persone affettivamente legate a me, poiché finché hai il ragazzo, l’amica che ti accompagna in macchina, tu la lotta per i servizi pubblici accessibili non la fai più di tanto perché dici, io il problema egoisticamente l’ho risolto per i cavoli miei, ma sempre con l’aiuto del fidanzato, del marito, del figlio, del padre. Giustamente per la tua autonomia ti fa più piacere che ti porti il tuo papà che ti conosce, che sa come aiutarti o il tuo fidanzato o tuo fratello piuttosto che da sola cominciare a prendere un autobus che poi non ci riesci. Io un consiglio che darei alle donne disabili è quello di cercare di essere autonome comunque, cioè anche se hai un marito, un fidanzato fai la tua vita, non dipendere dalla sua disponibilità, devi essere autonoma, non ti devi far aiutare da lui perché dopo si innesca un meccanismo contorto di dipendenza, gli voglio bene perché mi aiuta non gli voglio bene perché mi piace. Per noi disabili purtroppo è facile cadere nella relazione d’aiuto parentale-affettiva che sostituisce le carenze politiche-istituzionali-sociali».
Quella che in sostanza emerge da questo studio è una società ancora impreparata ad accogliere le donne con disabilità negli ambienti di lavoro. Un’inadeguatezza che nella pratica si traduce in discriminazione. Colpisce molto riscontrare in alcune delle intervistate un atteggiamento rassegnato o rinunciatario. Forse non è ancora sufficientemente chiaro che, in ultima analisi, alla disuguaglianza d’accesso corrisponde sempre una disparità a livello di libertà.
UILDM Bologna, tel. 051 266013, uildmbo@libero.it.
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