Per non smarrire la strada dell’integrazione

di Giovanna Cantoni*
Sono estremamente preziose le riflessioni di chi ha seguito per tanti anni i problemi dell'integrazione scolastica delle persone con disabilità, vivendo direttamente i passaggi fondamentali che negli anni Settanta hanno portato alla "scuola di tutti". Ma è anche sconfortante dover constatare che molti sogni sono andati perduti e che altri rischiano di svanire in questa epoca tanto difficile

Bimbo con un grande cappello oin testa in un'aula scolasticaIn questi giorni sono terminati i corsi della SSIS di quattrocento ore [SSIS sta per Scuola Superiore di Insegnamento Secondario e i corsi di cui si parla sono quelli di abilitazione all’insegnamento nell’Area H, attivati dalla Regione Emilia Romagna, N.d.R.] e ho avuto occasione di chiedere agli studenti esaminati dalla mia Commissione notizie sul loro tirocinio, nella speranza di tornare a casa un po’ rasserenata, dopo le informazioni non certo positive che alcune associazioni mi avevano fornito. Ecco che cosa è venuto fuori.

1.
I dirigenti scolastici non si interessano degli alunni disabili e se lo fanno li trattano “come bambini” e non come adulti; non conoscono le norme, se non in modo superficiale; pensano di poter decidere tutto da sé (si tratta della generazione di dirigenti che proviene dalle Direzioni Didattiche delle scuole elementari).
In loro, poi, è spesso presente il pregiudizio di ritenere ingiusto che le persone definite “handicappate” possano accedere al diploma. E questo propone una sorta di automatismo che convoglia (dandolo per scontato) verso l'”attestato di credito formativo” o la ripetenza dell’ultimo anno scolastico.
I tentativi di superare il pregiudizio da parte dei genitori spesso trovano ostacoli in appuntamenti con lunghe attese in anticamera, file agli sportelli delle segreterie, eterne riunioni con macchinose discussioni, convocazioni varie… che vanno a determinare percorsi estremamente conflittuali e mortificanti.

Primo intermezzo
Un dirigente proveniente dalla scuola elementare mi telefona per chiedermi informazioni sugli esami di maturità. «Gli faccio ripetere l’anno? Tanto l’esame non lo supera…». «Ma quando ha saputo che non supera l’esame?», chiedo. «Proprio ieri…». «Ma come? Che cosa è scritto nel PEI [Piano Educativo Individualizzato, N.d.R.]?». «Nel PEI non c’è scritto niente relativamente all’esame. Il PEI non funziona per quel che riguarda l’esame».
Lezione in aula con un alunno in carrozzinaProvo allora a spiegare a questo dirigente “un po’ ignorante” che il PEI non funziona molto probabilmente perché non è stato progettato con i dovuti criteri. Un PEI, infatti, si dovrebbe basare sull’osservazione, dovrebbe poter avere in mente riferimenti teoretici e metodologici, dovrebbe partire dalle competenze e dalle abilità del ragazzo per evolverle, dovrebbe prevedere mediazioni, supporti, sostegni, mettendo in atto quelle condizioni mediatrici tali da poter superare l’handicap, quelle strategie che propongono il raggiungimento degli obiettivi in una dimensione facilitata. Dovrebbe…
In sostanza il PEI deve fondamentalmente dimostrare le capacità progettuali di una scuola, di un team di professionisti che – volendo rispettare le norme e mettendo in pratica  le  loro  competenze – organizzano, pianificano percorsi possibili per l’allievo con  disabilità. Percorsi, strumenti,  strategie, opportunità, occasioni, per superare gli handicap.
Il fatto che uno studente non abbia raggiunto gli obiettivi del PEI, anziché dimostrarci che egli non ha le competenze richieste, ci dice che per lui forse erano necessarie altre strade, altre strategie, altri strumenti, altri percorsi, altre consulenze, un progetto PEI differente.
In tale dimensione, dunque, il fallimento del PEI ci dovrebbe far riflettere e far capire che la professionalità dell’insegnante, di quello specializzato, del dirigente scolastico, dev’essere di alta qualità, di alto livello, se si vuole veramente partecipare al superamento dell’handicap e non constatare meramente il deficit o, peggio, determinare condizioni mortificanti.
Sottolineo inoltre l’estrema flessibilità del PEI, che non è né un destino né una norma: esso infatti, come si suol dire, è un work in progress, ovvero, parlando in italiano, va modificato e migliorato in corsa ed è perfezionabile permanentemente, come prevede l’articolo 17, comma 4 dell’Ordinanza Ministeriale 43/02. Ma torniamo al nostro racconto iniziale.

2.
I docenti curricolari non hanno un corretto rapporto con i docenti specializzati nel sostegno. Una studentessa mi ha detto: «Ci trattano come veline…» e un’altra: «Pensano che siamo al loro servizio, mi mandano a fare le fotocopie, a prendere la borsetta o il libro che hanno dimenticato nell’altra aula…».
Nella maggioranza, poi, ritengono che lo studente disabile non sia un loro studente, ma uno studente del docente di sostegno. «Per favore, portalo fuori che devo spiegare…», è la frase che si sente sin troppo spesso.
I più gentili sono quelli che trattano l’alunno disabile non come un adolescente, ma – a immagine dei dirigenti – come “un bambino piccolo”, usando con lui il linguaggio che si usa appunto con i piccoli. Qualcuno, “più coraggioso”, gli fa anche una carezza sulla testa, salvo mandarlo in corridoio quando deve spiegare…
Infine, i docenti – così come i dirigenti – ignorano la normativa relativa all’integrazione scolastica. «Ah sì! La legge dice questo? Ma probabilmente è una legge vecchia…».

3.
Sono una socia di antica data della UILDM di Bologna (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), un’associazione che segue molto da vicino i problemi degli alunni distrofici. In questo senso la psicologa Antonella Gambini visita regolarmente i ragazzi iscritti all’associazione che frequentano le scuole e in una sua recente relazione si può leggere:
Alunno in carrozzina«Per quanto riguarda più strettamente il confronto con la “scuola”, la situazione è sostanzialmente immutata: i rapporti con l’istituzione scolastica non sono idilliaci, ma le famiglie e i ragazzi temono di peggiorarli con un intervento troppo intrusivo e soprattutto i ragazzi vivono ogni “interessamento” come un’ingerenza nel loro privato e come un elemento ulteriormente discriminante.
In definitiva i ragazzi adolescenti mi sembrano avere le caratteristiche tipiche di quell’età: non amano troppo che gli adulti entrino nel loro mondo, non sono tutti ugualmente interessati allo studio, non tutti hanno considerazione o buoni rapporti con gli insegnanti, ma per tutti la scuola è il luogo deputato alla socializzazione e alla creazione della vita sociale e di conseguenza sono interessati più alle buone relazioni con i compagni che con le istituzioni.
Proprio per questo appare fondamentale sentirsi “uguali”, confondibili, senza caratteristiche discriminanti. Gli insegnanti di sostegno, dove ci sono, vengono tollerati, così come gli educatori, che tutti vorrebbero più presenti, ma anche più “invisibili”; questo aspetto può apparire contraddittorio, ma a ben pensarci non è così: le esigenze e le necessità sono tante, ma le persone deputate alla presa in carico di determinate situazioni non vengono percepite come adeguatamente preparate o motivate.
I ragazzi e le famiglie accettano di convivere con certe criticità logistiche e organizzative, se compensate dalla presenza di un forte “gruppo classe”, dall’esistenza di una rete di relazioni che contribuisca a rendere la quotidianità non difficoltosa e discriminata. Purtroppo le persone preposte a fare “da ponte” nelle classi fra le diverse realtà non sempre favoriscono l’instaurarsi di un clima sereno, all’insegna dell’accoglienza e della reciprocità.
Le problematiche sostenute più apertamente sono quelle legate soprattutto alle gite scolastiche, all’accompagnamento in bagno e solo una persona si è espressa in maniera completamente negativa e critica sull’ambiente scolastico. La situazione è che la partecipazione alla gita scolastica è sempre problematica: le famiglie o accompagnano loro i ragazzi in gita, dove bene o male si tollera la loro presenza, o la scuola non fa partecipare i ragazzi.
Anche l’accompagnamento ai sevizi igienici rimane un tasto molto critico: si presenta con poco personale e poco motivato a svolgere questo servizio, spesso scelto anche in modo incongruo… [grassetto e corsivi nostri nella citazione, N.d.R.]». In altre parole, non rispettando la dignità dello studente o della studentessa e penso al caso, avvenuto un anno fa, di una bella ragazzina distrofica, timida e introversa, che doveva essere portata in bagno da un baldo giovane dalla forte muscolatura con i baffi alla tartara. Soluzione della famiglia? Il pannolone per la ragazzina… Credo non ci sia molto da aggiungere.

Secondo intermezzo
Telefonata di questa mattina ricevuta da un presidente di commissione: «Il titolo di studio che si rilascia all’alunno disabile vale come quello dei ragazzi normali? Non si deve scrivere che ha fatto le prove equipollenti?». «Presidente – rispondo – c’è stata la Resistenza e fortunatamente le leggi fasciste non sono più valide. Lei fa riferimento all’articolo 102 del Regio Decreto n. 653 del 1925 che fortunatamente è stato abrogato!». «Ma… allora»… «Allora sul diploma scriva solamente che l’alunno ha conseguito il titolo e la votazione riportata. Guardi, presidente, che se non fa così è passibile di denuncia…».Alunno con disabilità insieme a un compagno di scuola

4.
Che fare? Non è più compito mio intervenire sul che fare: ho molti anni alle spalle e sono in pensione: ormai sono “fuori dai giri”.
Penso però a quello che ebbi l’occasione di scrivere un paio d’anni fa: «Quello che mi sconforta è che sono andati perduti i sogni dei disabili e per i disabili. Avere un sogno non vuole dire vivere alla giornata, ma avere un progetto per la sua realizzazione».
Grazie per avermi letto e a chi è ancora giovane e ha i mezzi per farlo, dico solo: fate, per favore!

*Università di Bologna. Già Ispettrice del Ministero della Pubblica Istruzione.

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