Com’è già noto a chi segue con attenzione il nostro sito, la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) ha premiato anche quest’anno le quattro scuole vincitrici – una per categoria – delle Chiavi di Scuola 2009, concorso sulle buone prassi per l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità, promosso dalla Federazione, con il sostegno, per il terzo anno consecutivo, di Enel Cuore ONLUS (il nostro testo dedicato alla premiazione dei vari vincitori, pubblicato nel mese di febbraio scorso, è raggiungibile cliccando qui).
Dopo avere quindi dedicato nei giorni scorsi i nostri primi due servizi alla scuola dell’infanzia e a quella secondaria di secondo grado (se ne legga cliccando qui e qui), In questa intervista abbiamo ascoltato il racconto della dirigente scolastica e soprattutto del docente che ha avuto un ruolo da protagonista nel progetto della scuola secondaria di primo grado, risultato vincitore nella propria categoria, intitolato Caos Letterario… ovvero: dietro uno scemo c’è sempre un villaggio e condotto presso l’Istituto di Via Pascoli a Cesena (succursale di San Domenico).
Ci tiene molto Sabrina Rossi, vivace e disponibile dirigente scolastica, a spiegare che per lei Le chiavi di Scuola rappresentano «le chiavi per aprire un recinto e uscire fuori e acquisire visibilità su temi che di solito rimangono, per l’appunto, chiusi dentro a un recinto. Grazie al concorso, invece, le informazioni circolano e le buone prassi possono venire replicate in luoghi diversi».
«Abbiamo già speso i 2.000 euro vinti con il concorso – spiega – acquistando attrezzatura per implementare il laboratorio teatrale. A scuola abbiamo due compagnie regolarmente registrate. Ci sembra un metodo didattico efficace e ci teniamo a valorizzarlo».
In effetti, il progetto che ha reso vincitrice la scuola di sabrina Rossi consiste proprio nella realizzazione di uno spettacolo teatrale, scritto e diretto dal professor Maurizio Mastrandrea.
Nella messa in scena è stato coinvolto uno studente con disabilità, ma il progetto non è stato costruito attorno alla sua persona. In tal modo il concetto di inclusione – nel senso del dare a ciascuno un posto uguale a quello di un altro – è soddisfatto pienamente. Il ragazzino in questione aveva tredici anni nel 2009, quando il laboratorio teatrale si stava svolgendo, è di origine magrebina ed è affetto dalla sindrome di Ehlers-Danlos, in conseguenza della quale ha una crescita corporea ridotta e alcune limitazioni motorie che non ne impediscono, ma che comunque ne complicano la deambulazione. A livello cognitivo manifesta un ritardo medio-lieve.
Professor Mastrandrea, come ha vissuto il ragazzo l’esperienza?
«Si è trovato benissimo. Non abbiamo messo a punto un percorso apposta per lui, piuttosto parlerei di un percorso generale di attenzione. Ci siamo presi tutti cura di lui semplicemente coinvolgendolo. All’inizio era timido, ma poi si è lasciato andare, così come gli altri suoi compagni. Facciamo con tutti un buon lavoro di accettazione, basato su alcune semplici regole, che consistono sostanzialmente nel non ridere mai di nessuno, ma nello scherzare su tutti. Applaudiamo molto e incitiamo ogni attore.
Per capire il successo dell’iniziativa teatrale rispetto al ragazzo di cui stiamo parlando basterebbe dire che è andato in scena nei panni del Marchese De Sade, recitando un pezzo in cui il Marchese si lamenta perché le infermiere non lo soddisfano. Un pezzo non semplice, insomma, e di pari dignità rispetto a quello assegnato ai compagni. In più, a spettacolo finito, è tornato sul palco con gli altri a prendersi gli applausi: anche questo comportamento, per niente scontato, è un segnale rilevante del successo dell’iniziativa.
Per quanto poi riguarda le sue difficoltà specifiche, vorrei segnalare che, pur essendo alfabetizzato e conoscendo bene l’italiano, egli manifesta problemi soprattutto nella memorizzazione a breve termine. L’apprendimento della sequenza teatrale che gli competeva e tutto il percorso di laboratorio teatrale in generale lo hanno stimolato proprio su questo punto e quest’anno il suo rendimento scolastico è migliorato.
Mentre mi intervistate sto preparando gli scrutini, visto che sono suo professore di storia e geografia, e sono felice di poterlo premiare con un bel sette in entrambe le materie. Si è meritato quel voto, quest’anno ha una grinta davvero irriconoscibile».
E per quanto riguarda i limiti fisici?
«Il teatro dà la possibilità a tutti di esprimere al massimo la propria corporeità, ma ciò accade all’interno di un “coro”, dove ognuno conta per quello che è in grado di esprimere. In questo senso, le sue difficoltà di movimento sul palco sono diventate un mezzo espressivo, mescolato e potenziato dalle fisicità dei compagni. Oltretutto chi ha visto lo spettacolo mi ha detto di non essere stato in grado di individuare la presenza di un attore con disabilità».
Ha partecipato tutta la classe al laboratorio e come si è svolta la preparazione?
«Sì, hanno partecipato tutti e ventiquattro gli studenti. Durante l’anno ci siamo incontrati per le prove una volta alla settimana. La classe ha aderito tutta e tutti hanno partecipato al training, al lavoro sul movimento, sulla vista e sull’espressione. Poi, come già in altri casi, c’è stato qualcuno che non se l’è sentita di calcare il palcoscenico, bisogna metterlo in conto quando si lavora con le classi, è una titubanza legittima. In questo caso, ad esempio, due studenti hanno preferito impegnarsi in compiti di backstage e con le luci».
Di che cosa parla lo spettacolo?
«La scena si svolge in una clinica psichiatrica all’interno della quale viene costruita una biblioteca. I “matti” la assalgono e trasformano a modo loro le varie personalità della letteratura. Così Renzo dei Promessi sposi diventa il “Geloso Siciliano” e Lucia una “donna poco per bene”, perché è uscita di nascosto con l’Innominato. Poi c’è Ulisse che siccome non sopporta più Penelope vuole ripartire per un altro viaggio e così via.
Nella prosa ho inserito anche due incursioni poetiche, con letture prese da Antonia Pozzi, Mariangela Guarnieri e un pochino anche da Dino Campana. Il tono generale è comico, scanzonato. L’idea che ho avuto nel preparare il testo di questo lavoro è stata quella di mettere le paure di fronte agli attori e agli spettatori per esorcizzarle, come accade ad esempio nella scena della lotteria, dove ognuno reclama la propria difficoltà: “36, l’angoscia… ce l’ho!… 45, la tristezza… ce l’ho io!!”. E vorrei concludere il mio racconto sottolineando un aspetto dell’esperienza teatrale che mi sta a cuore e mi piace molto, e cioè che le differenze di rendimento scolastico che si registrano in classe qui si annullano».
Il professor Mastrandrea, che abbiamo conosciuto attraverso quest’intervista, dev’essere uno di quei docenti che capita una volta ogni tanto in una scuola e che vale la pena tenersi stretti. Ce lo descrive così la sua dirigente scolastica, che attraverso il lavoro del proprio insegnante ha riscosso anche altri riconoscimenti oltre a quello delle Chiavi di Scuola. Mastrandrea, infatti, è stato da poco nominato “miglior docente della città” (una città che conta 100.000 abitanti, tiene a sottolineare Sabrina Rossi) e ha ritirato un’onoreficenza del Rotary Club.
Inoltre, con un altro spettacolo teatrale, il 27 maggio scorso il professore ha registrato un’altra vittoria: il premio dell’ANLAIDS (Associazione Nazionale per la Lotta contro l’AIDS), per un progetto didattico dedicato alla prevenzione di tale malattia. Lo spettacolo, intitolato Perché noi portiamo il fuoco e liberamente ispirato ai contenuti del romanzo La strada di Cormac McCarthy, è stato messo in scena con ragazzi soprattutto del terzo anno appartenenti a sezioni diverse della scuola. L’AIDS viene inserito nella pièce come una delle cause della fine del mondo (il romanzo di McCarthy descrive infatti uno scenario da fine del mondo).
«Oltre allo spettacolo – racconta ancora Mastrandrea – i ragazzi hanno messo a punto anche uno spot di sensibilizzazione sociale e abbiamo puntato soprattutto sul discorso dell’accettazione. A scuola, ad esempio, c’è un ragazzo con l’HIV, che però non ha partecipato allo spettacolo: è importante che i ragazzi sappiano che non c’è nessun rischio di infezione nel frequentarlo. Insomma, il lavoro che abbiamo fatto aveva come obiettivo principale quello di evitare le ghettizzazioni».
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