Se l’inclusione è solo “di facciata”

Anche se «l’evento “La Grande Sfida – IncontrArti” del 17 maggio all’Arena di Verona è stato presentato come un momento di incontro, cultura e inclusione», in realtà «si è trattato dell’ennesima operazione di facciata»: lo sostengono le due attiviste Valentina Tomirotti e Sofia Righetti, tornando a puntare il dito contro l’Arena di Verona, già nel 2023 uscita soccombente da una causa per discriminazione intentata da entrambe per non essere riuscite a partecipare a due concerti extra-lirici

Arena di VeronaAnche se «l’evento La Grande Sfida – IncontrArti del 17 maggio all’Arena di Verona è stato presentato come un momento di incontro, cultura e inclusione», in realtà «si è trattato dell’ennesima operazione di facciata»: lo sostengono due attiviste di lungo corso, Valentina Tomirotti, giornalista e con-fondatrice del movimento Live For All, e Sofia Righetti, filosofa, atleta paralimpica e attivista per i diritti delle persone con disabilità, che hanno ancora una volta puntato il dito contro l’Arena di Verona, che già nel 2023 era uscita soccombente da una causa per discriminazione intentata da entrambe per non essere riuscite a partecipare a due concerti extra-lirici (se ne legga a questo link).
«L’Arena di Verona continua a non essere un luogo realmente accessibile, eppure viene scelta come palcoscenico per un evento che pretende di parlare di inclusione. Questa è ipocrisia istituzionalizzata – ha denunciato Tomirotti –. Ci troviamo davanti all’uso della disabilità come foglia di fico per lavare l’immagine di chi, nei fatti, continua a discriminare gli spettatori con disabilità».

A preoccupare non è solo l’inadeguatezza della location, ma anche la narrazione stessa. «Questi eventi non fanno altro che strumentalizzare le storie delle persone con disabilità per generare empatia a comando – ha osservato Righetti –. L’inclusione non è un tema da palcoscenico, ma una responsabilità collettiva. Se non parte da un cambiamento strutturale, resta uno spettacolo per coscienze sporche».

Secondo le due attiviste «non si può parlare di “sfida” se l’unico ostacolo che si continua ad aggirare è quello del cambiamento reale. L’accesso limitato, i posti riservati insufficienti o marginali, l’assenza di percorsi realmente fruibili, e la mancanza di ascolto delle persone direttamente coinvolte sono segnali evidenti di una cultura che preferisce rappresentare la disabilità piuttosto che includerla». «Non ci servono testimonial o momenti emozionali, ma spazi, voce e pari opportunità. L’inclusione non può essere “un hashtag di marketing”. Deve essere la base su cui si costruisce ogni progetto culturale», aggiunge ancora Tomirotti.

«Eventi come questo alimentano una falsa percezione di progresso – sottolineano ancora le due attiviste –, quando nella realtà quotidiana permangono discriminazioni sistemiche: dalle barriere fisiche alla marginalizzazione culturale, dalla tokenizzazione mediatica alla mancata consultazione delle persone direttamente coinvolte».
«Fino a che gli spettatori con disabilità non avranno gli stessi diritti e opportunità in Arena come i non-disabili, questi eventi token [eventi simbolici, N.d.R.] non fanno altro che suggellare la discriminazione e la segregazione di cui sono vittime le persone con disabilità che vogliono partecipare agli spettacoli e ai concerti», annota Righetti.
«L’inclusione non è una scenografia da montare a seconda delle occasioni. È un lavoro collettivo e continuo che deve partire dal rispetto concreto e quotidiano dei diritti», rimarcano in conclusione le due attiviste.

Va per altro ricordato che sia Tomirotti che Righetti sono due promotrici del già citato movimento Live For All, un movimento nato proprio per ripensare l’accesso alla cultura, allo sport e allo spettacolo in chiave inclusiva e universale, concretizzatosi in una petizione sulla piattaforma Change.org per promuovere il Manifesto per Eventi dal vivo Accessibili.
Lo strumento si propone il raggiungimento di cinque obiettivi: prenotazioni uguali a tutti gli altri, con un click; numeri democratici; posti adeguati; basta segregazioni; nuovi parametri di progettazione delle infrastrutture.
Proprio in riferimento al citato Manifesto, le due attiviste osservano come esso sia «uno strumento concreto, politico e operativo per cambiare davvero le cose. Non è un elenco di buone intenzioni, ma un patto di responsabilità per organizzatori, istituzioni e spazi culturali. Perché l’inclusione non è una trovata da palco, ma un lavoro sistemico». (Simona Lancioni)

Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’h – Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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