Il processo di inclusione delle persone con disabilità, promosso in tutti gli ambiti della vita sociale dalla Convenzione ONU dei Diritti Umani delle Persone con Disabilità, porta con sé una serie di ricadute pratiche che spesso si ignorano, come scrive Giampiero Griffo in un recente approfondimento sul tema pubblicato su queste colonne (lo si legga cliccando qui). La portata del concetto di inclusione apre infatti a un processo di rivoluzione culturale già in atto per cui «la persona con disabilità è considerata cittadino a pieno titolo e quindi titolare di tutti i diritti come gli altri cittadini». In base a questo riconoscimento, non basta più operare per inserire la persona con disabilità in un contesto sociale che di per sé le è in qualche misura ostile – spesso riservandole qualche posto “speciale” – e, soprattutto, non è più accettabile farlo considerandola come l’elemento passivo che “riceve” un processo assistenziale. Parlare di inclusione significa dunque partire dalla dignità umana delle persone con disabilità che reclamano i loro diritti e i loro doveri e che, facendo parte a pieno titolo della società civile, possono dettare quanto tutti gli altri le regole per il suo migliore funzionamento.
Questo approccio implica due passaggi fondamentali di consapevolezza: occorre che chi non è persona con disabilità riconosca il processo di inclusione e si ponga in un atteggiamento di dialogo e di confronto con chi lo è; occorre inoltre che chi è persona con disabilità si responsabilizzi nel riconoscere la propria dignità di persona e metta a fuoco le proprie potenzialità, le proprie richieste e i propri doveri.
Attorno a questo importantissimo processo stanno nascendo, com’è ovvio, nuove figure professionali. Si sta aprendo, in questi ultimi anni, un nuovo mercato del lavoro con un know-how specializzato. Assistenti personali, ingegneri e architetti di Universal Design, disability councelor, operatori degli informahandicap, aziende di ausili, mediatori al lavoro: sono tutte figure che fino a poco tempo fa non esistevano. Oggi hanno un mercato e per alcune si inizia a pensare a una formazione strutturata. Superando vuole incontrarle, conoscerle e presentarle ai lettori attraverso una serie di interviste.
Andrea Micangeli è docente di Tecnologie per l’Autonomia e l’Ambiente all’Università La Sapienza di Roma. Ha una cattedra sia nella facoltà di Ingegneria che in quella di Psicologia in un corso sperimentale. Il suo insegnamento – in linea con l’approccio anglosassone – mette insieme la sostenibilità ambientale (energie rinnnovabili, cooperazione allo sviluppo) con quella sociale (per l’accessibilità di tutti, quindi legata alla progettazione e alle tecnologie per la disabilità). Quando gli chiediamo quante altre cattedre simili alla sua esistano in Italia, emerge un primo dato: l’Università italiana non crea rete. Non esiste, cioè, uno spazio strutturato a livello universitario nazionale per lo scambio tra studiosi di progettazione universale che tra di loro non si conoscono se non per vicende isolate. Le esperienze di rete finora conosciute sono quindi state stimolate per lo più da proposte venute dalle associazioni di persone con disabilità, come il DPI (Disabled Peoples’ International) e il CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità). Questa lacuna spinge la nostra redazione a iniziare una ricerca approfondita per eleborare un documento completo oggi – a quanto risulta – mancante.
Ad Andrea Micangeli chiediamo innanzitutto di raccontarci la sua storia personale.
«Ho la cattedra in Tecnologie per l’Autonomia dal 2002. Avevo studiato ingegneria con un collega con disabilità. Insieme a lui, ancora studenti, nel 1994 avevamo fondato l’ILITEC, un’associazione sulle Tecnologie per la Vita Indipendente. Ci siamo mossi per ottenere l’abbattimento delle barriere architettoniche all’Università, per trovare percorsi accessibili, per organizzare l’accoglienza degli studenti disabili. Fin dall’inizio abbiamo agito in collaborazione con il DPI. Il mio percorso di studi si è poi integrato con questa esperienza personale, anche se negli anni mi è stato dato più spazio per l’altro argomento che mi sta a cuore, quello delle energie rinnovabili. L’ecosostenibilità, infatti, è stata recepita prima della progettazione universale e l’accorpamento dei due aspetti della sostenibilità, quella ambientale e quella sociale, modalità diffusa nei Paesi anglosassoni, da noi si fa fatica ad incontrare».
C’è un evidente cambio generazionale dei progettisti rispetto alla formazione nella progettazione universale?
«Senza dubbio. Il contatto con l’Unione Europea e i progetti che essa ha promosso in questo senso hanno giocato un ruolo importante. La sensibilità acquisita dai progettisti giovani è cambiata. Poi, di fatto, le difficoltà si presentano comunque, quando costoro si trovano a operare senza possibilità decisionali autonome, ad esempio».
Il percorso di studio dei nuovi progettisti implica automaticamente la conoscenza della progettazione universale?
«No, è una specializzazione che uno si deve cercare ed è ancora vista “strana” come tipo di studio. Non esiste in Italia alcun corso di laurea vero e proprio, strutturato formalmente, a differenza che in altri Paesi europei come ad esempio l’Inghilterra, la Germania o la Spagna. Per ora si tratta di una materia facoltativa. Secondo me, anche chi non vi si specializza, dovrebbe comunque acquisire una competenza e una sensibilità sull’argomento».
La società ha registrato il cambiamento culturale introdotto dal processo di inclusione in atto? In cosa si vede?
«Lo vedo ad esempio a livello di scelte delle amministrazioni locali. Le barriere architettoniche cittadine preesistenti vengono sempre più superate da ausili, ad esempio. Il Colosseo, che non era accessibile, ora lo è, così come la stazione metro che gli sta vicina. Rimangono ancora molti problemi, ma percepisco il cambiamento culturale. Penso che la sensibilizzazione diffusa si veda anche dal fatto che sempre di più incontro formulari per la richiesta di finanziamenti, locali o europei, in cui tra gli elementi da sottoporre c’è la richiesta di impatto ambientale del progetto e la descrizione di come viene trattata l’accessibilità».
Com’è cambiata negli anni la domanda dell’utenza nel suo lavoro?
«Percepisco molta più consapevolezza, molta più partecipazione. Molte persone con disabilità hano contatti con il resto dell’Europa, si muovono, viaggiano. Credo che l’integrazione scolastica sia stata importante e abbia portato frutti oggi evidenti». (Barbara Pianca)