A proposito del documento riguardante Scelte terapeutiche in condizioni straordinarie (disponibile integralmente a questo link), prodotto recentemente da FNOMCEO (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri) e SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva), non c’è dubbio che la collaborazione tra queste due organizzazioni abbia portato i suoi frutti, mitigando le asperità del tanto discusso documento prodotto il 6 marzo scorso dalla sola SIAARTI, intitolato Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili [se ne legga ampiamente anche su queste pagine a questo link, N.d.R.].
È utile ricordare a questo punto come sia stato il Comitato Sammarinese di Bioetica il primo a formulare un parere [“Risposta alla richiesta di parere urgente su aspetti etici legati all’uso della ventilazione assistita in pazienti di ogni età con gravi disabilità in relazione alla pandemia da Covid-19”, disponibile integralmente a questo link, N.d.R.], su richiesta urgente del Commissario Straordinario per l’Emergenza Covid-19 della Repubblica del Titano, in merito agli aspetti etici legati all’uso della ventilazione assistita in pazienti di ogni età con gravi disabilità in relazione alla pandemia. Anche «Superando.it» ha dato ampia notizia dell’impatto di tale documento su Istituzioni internazionali come l’ONU, che lo hanno indicato come modello di Best Practice (“buona prassi”).
E tuttavia, a fronte dell’equilibrio tra i princìpi etici e deontologici su cui si sviluppa il documento FNOMCEO-SIAARTI, non si possono trascurare un paio di passaggi che chi scrive ritiene rappresentino una grossa criticità bioetica e sui quali è doveroso soffermarsi per svelarne la filosofia che sussumono.
Penso innanzitutto al criterio su cui ruota tutta l’argomentazione, ovvero il «bilancio costi/benefìci», all’interno del punto b del documento, concernente Principi etici e professionali.
È questo il parametro di scelta del modello di stampo anglosassone (cosiddetto “modello utilitaristico”) che affonda le sue radici in pensatori come Hume, Bentham e Mill, ed è totalmente incentrato sulla valutazione economica delle decisioni in Sanità.
Generazioni di economisti sanitari hanno profuso le loro energie per individuare la formula matematica, sorta di “novella Excalibur”, che permettesse ai decisori in Sanità di effettuare le scelte sugli interventi terapeutici e sull’allocazione delle risorse. Sulla base di queste valutazioni risulta legittimo il rifiuto dell’assistenza, ove questa si configuri come una “spesa non produttiva”. Si è così avuto un proliferare di acronimi: dapprima l’ACB (Analisi Costo-Beneficio), che legittimava solo quegli interventi i quali, a fronte del relativo costo, garantissero il beneficio (la guarigione); si è poi passati all’ACE (Analisi Costo-Efficacia) che legittimava anche i costi per interventi che potessero risultare efficaci, pur non portando alla guarigione (ad esempio anni di vita in più); per arrivare infine ai “miracolosi” QALYs (Quality-Adjusted Life Year) che “aggiustano” il conteggio degli anni di vita previsti con la loro qualità.
Su questi ultimi si è scatenata la fantasia umana ragionieristica, con una lunga serie di tabelle che pretendevano di quantificare economicamente gli anni e la qualità di essi, per poi naufragare sotto gli strali di una semplice domanda: chi decide la qualità di vita di una persona, ad esempio, con dieci anni di vita attesa su una sedia a rotelle, piuttosto che cinque anni di vita attesa con l’uso delle gambe? E così via…
E ancora: chi può quantificare la qualità di vita, concetto assolutamente soggettivo, su cui ha diritto di parola la persona che deve sottoporsi al trattamento? Come è possibile che un gruppo di economisti possa, a priori, quantificare con una formula matematica se una vita sia degna di essere vissuta e per quanto tempo?
Ebbene, devo prendere atto che purtroppo questa impostazione filosofica permea tutto il documento prodotto da FNOMCEO e SIAARTI e supporta, come ricaduta pratica, la necessità di emanare delle linee guida aprioristiche con dei parametri selettivi per gli aventi diritto alle cure.
Antitetica, invece, è l’altra impostazione filosofica e bioetica (il cosiddetto “modello personalista”), che mette al centro delle scelte non i costi, ma la persona e che utilizza come parametro di scelta il rischio-beneficio: un intervento è ritenuto lecito se il beneficio che si vuole ottenere è superiore o uguale ai rischi prevedibili per la persona. In altre parole, alla base delle decisioni terapeutiche vi è l’appropriatezza delle cure.
Un modello, quindi, che inverte la prospettiva, in quanto i costi, pur essendo un elemento da considerare, non diventano preminenti nella scelta, ma seguono la prima valutazione, totalmente centrata sul paziente.
Questo parametro dev’essere applicabile anche nelle situazioni emergenziali, dove, a fronte della scarsità delle risorse, resta sempre primaria la valutazione di ogni singola persona e delle sue condizioni cliniche in quel momento, sulla base di due criteri ineludibili:
1°: evitare rischi, svantaggi e sofferenze non evitabili (l’intervento può comportare per la persona un rischio eccessivo o un “costo” eccessivo anche in termini di sofferenza e dolore?);
2°: dare vantaggi (il paziente può trarne un beneficio in termini di sopravvivenza e/o in termini di sollievo dalla sofferenza e dal dolore?).
Si ponga qui l’esempio di manovre come l’intubazione e il sostegno ventilatorio: non tutti i pazienti, a parità di età, comorbilità ecc., sono in grado di sopportarle, e pertanto, nel caso in cui questi interventi dovessero aggravare lo stato di sofferenza della persona, sarebbero da proscrivere.
Il secondo parametro del tutto discutibile all’interno del documento di FNOMCEO-SIAARTI è il «miglior interesse del paziente» (Best Interest), di cui si parla al punto d4 (La posizione del medico di fronte al consenso, dichiarazioni anticipate di trattamento e pianificazione condivisa delle cure).
Ben si è visto cosa abbia voluto significare tale parametro nei Paesi anglosassoni, sorta di “altare” su cui si sono sacrificate vite umane, arrogandosi (altri) il diritto di decidere cosa fosse meglio per il paziente che non poteva esprimersi, anche contro il parere strenuamente espresso in taluni casi dai genitori di neonati e minori.
Su tale questione così dibattuta, mi permetto di rimandare i Lettori a un articolo particolarmente approfondito ed esaustivo del neonatologo Carlo Bellieni, apparso il 20 ottobre in «Bioethics.net», con il titolo COVID-19 – Pandemic Imposes Clear End Of Life Decisions Criteria (“Covid-19 – La pandemia impone criteri chiari sulle decisioni di fine vita”), un contributo che condivido.
A ben vedere, i criteri che devono guidare la valutazione di ciascun paziente non introducono nulla di nuovo rispetto ai principi originari dell’ars medica fondati da Ippocrate: primum non nocere (principio di non-maleficenza) e quindi, l’adoperarsi per il bene del paziente (principio di beneficialità).
Entrambi sono inscritti nella kantiana “legge interiore” di ogni medico e sanitario, prima ancora che in ogni codice deontologico, e si concretizzano nell’agire secondo “scienza e coscienza”, espressione forse ritenuta da alcuni desueta, ma sempre profondamente vera.
Per questo, affidare la gestione di un paziente o di un ospedale a rigidi protocolli aprioristici è quanto di più contrastante con questo esercizio dell’ars medica, che si nutre di relazione e condivisione al letto del paziente, anche in situazioni di emergenza e di scarsità di risorse.
La drammaticità dell’emergenza pandemica diffusasi in tutto il mondo non può in alcun modo diventare un cuneo per “normalizzare” procedure selettive tra categorie di malati, né ora, né in futuro. La preziosità di ogni vita umana deve essere tutelata sempre.
Per questo è necessario tenere alta l’attenzione sulle Linee Guida dei Governi e delle Società Scientifiche: ammettere infatti deroghe in situazioni di emergenza, vuol dire prepararne la “normalizzazione” e introdurre nella percezione delle società il concetto di livelli differenti di vite.
*Docente di Bioetica all’Università Politecnica delle Marche; componente del Comitato di Bioetica del Consiglio d’Europa.