Nell’attuale acceso dibattito culturale e pedagogico sull’inclusione scolastica suscitato dalle recenti dichiarazioni di Ernesto Galli Della Loggia, mi lascia un po’ perplesso il giudizio, a mio avviso, eccessivamente negativo dei più sull’operato delle vecchie “scuole speciali”. Infatti, chi scrive non si sente di cancellare troppo sbrigativamente con un semplice “colpo di spugna” l’importanza e la valenza che, nonostante tutto, nel secondo Novecento esse hanno avuto per le persone con disabilità, rappresentando, come ad esempio nel caso degli Istituti per Ciechi, un “baluardo” tiflopedagogico e tiflodidattico per migliaia di alunni/studenti privi della vista.
Dopo quanto detto, va subito sottolineato, a scanso di equivoci, che lo scrivente non è un “nostalgico” dei tempi delle scuole speciali. Esse costituivano infatti un “libro chiuso” e un sistema autosufficiente, che collocava le persone con disabilità fuori dal mondo e dalla storia e le emarginava. Dunque, anch’io ho salutato con gioia il superamento del concetto di educazione separata, di memoria gentiliana, per attingere con convinzione a quello montessoriano della co-educazione. Dalla “conquista di civiltà” dell’inclusione scolastica noi persone con disabilità italiane non possiamo, né dobbiamo e vogliamo allontanarci più.
Gli studenti con disabilità, infatti, devono essere nella scuola di tutti e purtuttavia ritengo che la transizione dalla scuola speciale alla scuola di tutti sia avvenuta con troppa improvvisazione, poiché la scuola non era stata preparata adeguatamente ad un compito difficile che, a mio parere, non era ancora pronta a svolgere, e a tutt’oggi, dopo 47 anni dalla Legge 517/77, a 37 anni dalla Sentenza 215/87 della Corte Costituzionale che ha sancito il diritto per gli alunni con disabilità di frequentare tutte le scuole superiori, a 32 anni dalla Legge 104/92 e a 18 anni dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che all’articolo 24 (Educazione) ha stabilito l’universalità e l’inalienabilità del diritto all’istruzione anche per le persone con disabilità, non è in grado di svolgere pienamente.
Infatti, nonostante in questi anni la scuola si sia impegnata fortemente per realizzare il processo di inclusione, non si è riusciti a trasformare pienamente quello che per molti anni è stato semplicemente integrazione, o ancora peggio, soltanto un inserimento scolastico. Perché la norma, la citata 517/77, ha disposto l’integrazione, ha consentito alle persone con disabilità di essere nella scuola, ma non ha fornito loro gli strumenti per includersi, per fare il salto di qualità dall’inserimento-integrazione all’inclusione, cioè alla partecipazione attiva da protagonisti del loro processo di apprendimento.
Parafrasando la famosa frase di Massimo d’Azeglio, mi verrebbe da dire che «abbiamo fatto l’integrazione, ma dobbiamo ancora fare l’inclusione!». Infatti, gli allievi con disabilità, ancora oggi, non si sentono parte della comunità scolastica della classe; si sentono in qualche caso accettati, in qualche altro sopportati. Spesso gli insegnanti di sostegno portano via dalla classe il ragazzo con disabilità o lo lasciano dentro quando i suoi compagni fanno la ricreazione fuori o svolgono attività di educazione motoria in palestra.
Pertanto, ritengo sia ormai improrogabile e necessario creare dei centri di risorsa, almeno a livello provinciale, così come accade in tanti Paesi del mondo. Accade in America, dove vi sono dei centri che preparano i ragazzi con disabilità ad andare nella scuola di tutti, fornendo loro gli strumenti, insegnando loro le tecniche di apprendimento del Braille, di apprendimento dell’uso dei materiali e delle altre tecniche necessarie per la scuola.
In Olanda, in Danimarca, in Svezia e in Norvegia esistono pure questi centri di risorsa, questi punti di riferimento per la disabilità. E sono certo che questo sia indispensabile anche nel nostro Paese, in quanto proprio la mancanza di un adeguato “sostegno del contesto” agli alunni/studenti con disabilità (che è poi l’autentico “pilastro portante” della Legge 517/77) ha provocato la più grave delle storture e distorsioni dell’inclusione scolastica nel nostro Paese, che è quella della deriva verso la delega al solo docente di sostegno del processo di inclusione.
Come scriveva Luciano Paschetta nel 2013, «Oggi, constatato il livello assolutamente insoddisfacente dell’inclusione scolastica dei ragazzi con disabilità, dobbiamo trovare il coraggio di andare oltre. Dobbiamo aver il coraggio di dire ai genitori dei nostri ragazzi che, per migliorare la qualità dell’istruzione dei loro figli, non serve l’insegnante di sostegno ed aumentarne le ore!». Non serve l’insegnante specializzato, aggiungo, per il cui riconoscimento e “diritto” le famiglie degli allievi con disabilità ricorrono spesso persino ai giudici se, come sovente avviene, essi sono impreparati, hanno una formazione solo “general-generalista” e, conseguentemente, non possiedono competenze specifiche.
Occorre invece garantire agli studenti con disabilità, come detto, il “sostegno del contesto”, con la fornitura di servizi di sostegno efficaci e funzionali al successo formativo, la flessibilità del curricolo, la personalizzazione dell’insegnamento-apprendimento, una metodologia individualizzata che tenga conto dei loro reali ed effettivi bisogni educativi e, ancor di più, la formazione di figure professionali specifiche deputate al loro processo d’inclusione.
Per raggiungere tali obiettivi “rivoluzionari”, che ci farebbero davvero transitare dall’attuale dimensione integrativa alla “vera” cultura dell’inclusione, come tra l’altro previsto dal citato articolo 24 della Convenzione ONU, un primo passo potrebbe essere rappresentato, a mio parere, dall’attuazione e dal finanziamento dell’ormai “colpevolmente” dimenticata Legge 69/00 (Interventi finanziari per il potenziamento e la qualificazione dell’offerta di integrazione scolastica degli alunni con handicap). Essa, infatti, prevedeva ad esempio la ristrutturazione dell’Istituto Romagnoli di Roma e degli istituti per ciechi, degli istituti per sordi, per i malati mentali; ma non certamente perché questi istituti ospitassero o ricoverassero le persone con disabilità, ma perché potessero diventare i punti di riferimento per la ricerca in ogni settore, la ricerca tiflologica, la ricerca per i sordi, per i malati mentali e così via.
Che senso ha rivendicare il rapporto di 1 a 1 tra studente con disabilità e docente per il sostegno, se quest’ultimo non è efficacemente formato e preparato sul materiale didattico speciale e tiflodidattico, sulla letto-scrittura del Braille, sulla Lingua dei Segni Italiana, sull’autismo, sulla tifloinformatica e sulle tecniche per la socializzazione, le relazioni, l’autonomia e per l’orientamento degli studenti con disabilità?
Senza queste minime conoscenze e competenze di tipo specifico, tiflodidattico e tiflopedagogico da parte dell’insegnante di sostegno, l’alunno con disabilità continuerà a frequentare la scuola di tutti, ma a vivere come una “monade” dentro la classe, se non addirittura fuori dalla stessa.
A tal proposito, a parere di chi scrive, la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), tramite un’apposita Proposta di Legge, dovrebbe invece recuperare lo spirito lungimirante e “visionario” della predetta Legge 69/00, perché, ad esempio, per le persone minorate della vista l’Istituto Romagnoli, con adeguati contributi, potrebbe costituire l’unica “scuola di metodo tiflologica e di ricerca tiflopedagogica” in Italia e gli ex istituti e gli Istituti per Ciechi, se opportunamente finanziati, potrebbero essere i punti da cui irradiare i centri di risorsa prima provinciali e poi possibilmente regionali, deputati alla produzione del materiale didattico speciale, all’aggiornamento e alla formazione del personale del sostegno, alla trascrizione dei libri di testo in Braille e del suo insegnamento, come quello della LIS, all’assistenza delle famiglie, all’uso di tecniche per l’autonomia, la socializzazione, l’orientamento, lo svolgimento di attività sportive e la fruizione del tempo libero e all’alfabetizzazione nell’utilizzo delle nuove tecnologie e di quelle tiflo-informatiche.
Per rendere il contesto veramente inclusivo, in seconda istanza, non va neppure trascurata la cosiddetta “Direttiva Profumo” sui BES (Bisogni Educativi Speciali) (Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012), che a proposito dei CTS (Centri Territoriali di Supporto), ne ha definito i compiti, facendo assumere loro un ruolo sempre più attivo nel processo di inclusione.
L’apertura nel 2016 presso i CTS degli Sportelli Autismo ha costituito poi un ulteriore fatto assolutamente positivo di collegamento tra la scuola, le famiglie e le associazioni che le rappresentano, un’esperienza, questa, che meriterebbe di essere estesa, in collaborazione con le Associazioni delle persone con disabilità, aprendo sportelli riferiti ad altre tipologie di disabilità.
E infine, per assicurare un sostegno diffuso del contesto agli allievi con disabilità, chi scrive ha sempre sostenuto con forza e convinzione che, ad esempio per le Università, e in particolare per le Facoltà di Scienze della Formazione, sarebbe prezioso poter ricorrere alla comprovata preparazione di educatori alla comunicazione e di “pedagogisti esperti in scienze tiflologiche”. Infatti, negli ultimi anni, la scarsa presenza degli alunni con disabilità visiva e uditiva nella “scuola di tutti” (rispettivamente circa 4.000 studenti privi della vista e 5.000 non udenti) ha fatto crescere l’idea della formazione polivalente e della necessità di superare le specializzazioni dei docenti di sostegno. In questo clima culturale, ai sensi dell’articolo 13, comma 3 della Legge 104/92, l’attenzione alle specificità per ciechi e sordi viene demandata all’“assistenza alla comunicazione”, senza però che siano stati definiti né il profilo professionale, né il percorso formativo degli assistenti alla comunicazione, come al contrario previsto dall’articolo 3 del Decreto Legislativo 66/17, con l’inevitabile conseguenza che anche questi ruoli sono stati sovente affidati ad educatori privi di competenze specifiche.
Proprio per tale motivo, a mio parere, oltre all’assistente alla comunicazione, occorre necessariamente far rinascere nel nostro Paese la figura del tiflologo, per il quale si dovrebbe ritornare a discutere del riconoscimento giuridico della professione e della definizione del percorso formativo universitario, di cui mi riservo comunque una più ampia e specifica trattazione in un mio successivo contributo.
E per concludere, da preside, in vista delle auspicabili imminenti norme applicative del citato Decreto Legislativo 66/17, ritengo i tempi ormai maturi e fecondi per l’avvio di un confronto serio e approfondito sull’attuale modello di inclusione, tra gli uffici ministeriali, i dirigenti scolastici che hanno la responsabilità della sua attuazione e ne sono garanti, i docenti che operano nella quotidianità didattica, i pedagogisti esperti di inclusione e la Federazione FISH, che ne verifichi ogni giorno i risultati. Infatti, solo l’ascolto reciproco e un dialogo costante e costruttivo potranno rendere l’inclusione degli alunni/studenti con disabilità del nostro Paese davvero di qualità.