A partire dalla esplicitata disillusione manifestata a seguito della ratifica da parte del Parlamento italiano della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, questo scorcio di 2009 ha fatto registrare presso la redazione di Superando e i contatti dell’Ufficio Stampa della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), un indicativo – seppur non dirompente – numero di voci che hanno affermato la loro sfiducia nei confronti dell’associazionismo italiano e della capacità di questo movimento a dare risposte ai problemi che le persone con disabilità si trovano concretamente ad affrontare nella loro vita quotidiana.
Contemporaneamente alcuni singoli cittadini con disabilità hanno messo in campo in questi ultimi mesi iniziative di protesta su questioni generalmente connesse all’aumento delle pensioni di invalidità, lamentando a loro avviso uno scarso impegno dell’associazionismo in questo ambito e un’altrettanto scarsa attenzione riservata alle loro azioni da parte dalle organizzazioni di persone con disabilità.
Ma qual è davvero lo stato di attenzione sulle problematiche più avvertite dalle persone con disabilità dell’associazionismo in Italia e qual è il suo stato di salute? Si trova ad essere effettivamente così lontano dalle istanze manifestate dalle persone con disabilità? Riesce a rappresentarle correttamente? Ne abbiamo parlato in questa ampia e approfondita intervistacon Pietro Barbieri, presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). (Giuliano Giovinazzo)
Presidente Barbieri, come interpreta questa insoddisfazione nei confronti dell’operato dell’associazionismo che molte persone con disabilità hanno voluto far pervenire al nostro osservatorio privilegiato di “comunicatori” vicini alla FISH e queste proteste “fai-da-te” che nemmeno loro hanno risparmiato critiche alle associazioni?
«Credo sia assolutamente naturale che le associazioni non rappresentino tutti i modi di sentire. Siamo in un Paese democratico, libero, ragion per cui chi non si sente rappresentato o chi per semplice scelta rispetto alla propria condizione vuole fare emergere una determinata situazione non è per niente malvisto. Anzi, molte di queste iniziative non fanno altro che rafforzare le nostre rivendicazioni.
Inoltre, il sistema di welfare del nostro Paese – nel suo complesso – risponde male, anche se in maniera sufficiente, al punto che le persone non sentono spesso più bisogno di iscriversi alle associazioni. Le associazioni sono un pezzo di rappresentanza, che cercano di essere avanzate nelle loro rivendicazioni. È come pensare che i sindacati rappresentino tutti i lavoratori. La stragrande maggioranza dei lavoratori non è iscritta a un sindacato. È chiaro che quando quel sindacato sottoscrive un contratto nazionale, anche il lavoratore non iscritto ne risente. Questo riguarda anche l’associazionismo, che ha un potere molto più limitato rispetto a quello sindacale, perché almeno i contratti nazionali si firmano, mentre le politiche di un governo o di una comunità non si sottoscrivono, al massimo ci si accontenta del male minore!».
Le rivendicazioni, rilanciate anche sulle pagine di Superando, e specialmente quelle più estreme che hanno visto Lorenzo Milano interrompere l’assunzione dei farmaci e Alessandra Incoronato intraprendere uno sciopero della fame (se ne legga cliccando rispettivamente qui e qui), si sono generalmente concentrate sull’aumento della pensione alle persone con disabilità. È forse una problematica che la FISH ha posto in secondo piano?
«È chiaro che 240 euro al mese sono “un insulto” ed è chiaro che le persone con una condizione personale e familiare che non consente un miglioramento vedono come unico obiettivo quello di aumentare quelle risorse.
Gli obiettivi delle associazioni sono tanti e diversi. A partire da quello delle condizioni materiali di vita. Molti altri, comunque, non percepiscono questa come l’unica urgenza; se non si verificano manifestazioni di piazza eclatanti con migliaia di persone (perché parliamo di centinaia di migliaia di persone che usufruiscono di quella pensione), è perché molti vivono delle condizioni economiche fortunatamente di tipo diverso, per famiglia di provenienza o professione acquisita. Per cui l’ammontare della pensione di inabilità è un’emergenza, ma non è tra le emergenze l’unica. È emergenza anche come viene trattato uno studente con disabilità dentro la scuola – dove viene letteralmente “parcheggiato” – oppure dentro il sistema riabilitativo che talvolta nasconde forme istituzionalizzanti al limite del trattamento inumano o degradante.
Ci sono quindi diverse situazioni di emergenza, o meglio di discriminazione forte, al punto da rischiare la segregazione oltre che l’impoverimento. E tra queste c’è anche la condizione materiale di alcune persone e il rapporto tra condizione materiale e rischio di povertà è una cosa che continuiamo a ribadire. A tal proposito la FISH è rappresentata dentro al Tavolo che si occupa di povertà e dell’Anno Europeo contro le Povertà. E in questo contesto siamo l’unica organizzazione di persone con disabilità, un riconoscimento che non è casuale, ma dovuto evidentemente alle battaglie che abbiamo proposto nel tempo».
Forse questo impegno non è stato pienamente avvertito da molte persone con disabilità italiane. È necessaria un’accelerata su questo punto da parte della FISH?
«C’è una questione della condizione materiale – in alcuni casi – e va presa in considerazione con estrema attenzione. Ma, ripeto, non è l’unica emergenza. Le emergenze di un Paese fermo e ripiegato su se stesso sono segnali del pericolo di “marciare all’indietro”, gloriandosi però del proprio passato.
Anche il quarto ponte sul Canal Grande di Venezia, il noto “Ponte di Calatrava”, progettato e realizzato senza pensare all’accessibilità, può diventare il simbolo di un modo di fare progettazione che esclude ed emargina le persone. Anche quella è un’altra emergenza.
Difficile dunque stabilire quale sia la condizione peggiore, tra un bambino autistico che in una scuola dell’infanzia viene tenuto chiuso in una stanza d’estate al caldo perché non c’è personale in grado di rispondere alla sue esigenze o una persona con una condizione economica e sociale che non le consente di vivere con 240 euro al mese. Tra le due fattispecie la FISH non fa graduatorie e quindi le denuncia entrambe. Comunque sulla questione previdenziale e sull’impegno della Federazione, se possibile sarebbe utile soffermarsi in seguito con maggiore attenzione».
Qual è la sua opinione sullo stato di salute dell’associazionismo italiano, spesso tirato in ballo con parole non lusinghiere da chi si trova a vivere condizioni di estremo disagio?
«C’è un ragionamento serio da fare rispetto alle associazioni. C’è. Come c’è da fare un ragionamento serio rispetto anche ai sindacati e a tutte le forme di rappresentanza. A cosa servono? Cosa fanno? Perché il rapporto – per fortuna – tra il cittadino e l’amministrazione è sempre più diretto, è sempre meno mediato. I corpi intermedi che prevede la Costituzione Italiana sono sempre meno efficaci nella loro azione, in quanto le persone giustamente godono di interlocutori diretti nell’Amministrazione Comunale, Regionale e dello Stato. Questo richiama anche il Titolo V della Costituzione, visto che è fondamentalmente quella riforma costituzionale a modificare i rapporti tra Cittadini e Stato, avvicinando i primi all’Amministrazione. Oggi, infatti, lo Stato detta le strategie generali, mentre i servizi, le prestazioni e l’inclusione in genere (eccezion fatta per la pensione, l’indennità di accompagnamento e poco altro) li gestiscono le Regioni, le ASL, i Comuni.
La persona alla quale è stato tolto l’alloggio popolare [Lorenzo Milano, N.d.R.] ha un interlocutore, il Comune, che ha condotto quell’azione. E purtroppo su questo segnaliamo un problema serio, perché la capacità di rappresentanza delle associazioni a livello territoriale è sempre meno incisiva, per sudditanza localista, che indebolisce ovviamente la capacità aggregativa, necessaria per rivendicare i diritti di tutte le persone con disabilità e tutelare i singoli individui dai soprusi delle Amministrazioni o di altri».
Ma perché questo?
«Perché c’è sempre meno partecipazione. Per utilizzare slogan altrui, si potrebbe dire: “Non ti devi chiedere cosa lo Stato può fare per te, ma cosa tu puoi fare per lo Stato”. Quindi il tema delle associazioni su un livello territoriale qualunque, di qualunque tipologia, è che hanno delle assemblee sempre più ridotte. Sempre meno partecipate. Il punto è questo: come ravvivare questa partecipazione? E la forma partecipativa è sempre l’iscrizione/la tessera? Questo per fortuna ce lo si chiede non solo in Italia, ma in molti Paesi occidentali, dove appunto il corpo intermedio ha sempre meno senso, dove si costruiscono campagne magari su internet, attraverso la proposizione di un manifesto con migliaia di adesioni. E spesso quelle iniziative assumono molto più senso di ciò che l’associazione organizzata riesce a mettere in campo».
Come può essere possibile arrivare a questa mutazione delle prospettive del corpo associativo?
«Bisognerebbe riuscire a ri-orientare la capacità di chi oggi si propone come leader associativo, specie sul territorio, verso le nuove forme; è un impegno che la FISH sta cercando di assumere almeno dal 2002, ma si tratta di un passaggio stretto e difficile, anche perché i cittadini con disabilità si proiettano nel “vecchio modello associativo” che eroga direttamente i servizi, mentre oggi sono Cittadini e per tutta una serie di aspetti si rivolgono direttamente all’ufficio. Non percepiscono di aver bisogno del tutore e quindi dell’istituto costituzionale della tutela».
Faceva cenno a delle “nuove forme”, ma cosa intende di preciso?
«Tra le nuove forme su cui le associazioni devono riuscire a riflettere c’è la loro capacità di uscire dalla logica di gestire risorse di servizi o di progetti e andare verso la tutela del cittadino consumatore di beni e servizi (erogati dal settore pubblico o meno), e quindi verso la capacità di promuovere la tutela individuale e generale. In tribunale. Se si prendono in considerazione i ricorsi di gruppo, pertanto, s’intende ad esempio la class action.
Si tratta di strumenti che tutte le organizzazioni di cittadinanza, di società civile stanno reclamando, perché sono fondamentali per tutelare i cittadini. Altrimenti ci si incunea in dinamiche dalle quali non vi è uscita. L’importanza di questo passaggio è percepita dalla FISH e dalle organizzazioni che la compongono e infatti vi è una precisa strategia sulla quale costruire nuovi modelli».
Pensa che quelle citate possano essere forme di rivendicazione efficaci?
«Dov’è che sono stati modificati i comportamenti del governo rispetto alla riduzione dei posti di insegnanti di sostegno? Quando un importante numero di famiglie ha messo in campo ben tremila denunce in Italia. Un associazionismo maturo e intelligente riflette su questa “nuova frontiera” sulla quale si deve costruire, attivandosi attraverso “cause pilota” (si veda il già citato “Ponte di Calatrava” a Venezia), che possano costruire una rinnovata giurisprudenza tanto quanto le norme che approva il Parlamento, oppure in alternativa ricorrere a cause di gruppo.
In questo senso il nostro quadro legislativo è carente: manca infatti la class action e soprattutto manca l’attuazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, visto che la Convenzione stessa prevede ricorsi giuridici di gruppo. Sarebbe la prima volta.
Chiaramente la premessa di tutto ciò è che le associazioni – aderenti o meno alla FISH – abbiano assunto questa visione come la loro strategia di medio e lungo periodo, relegando a un ruolo minore nella loro attività la partecipazione a bandi per progetti e allontanando definitivamente la sudditanza politico-istituzionale, specie sui territori.
La visione rinnovata della funzione delle associazioni aderenti alla FISH è strategica, anche perché, dato che la FISH stessa ne rappresenta un certo numero – ma ce ne sono tante, tante altre – un blocco così importante può condizionare e orientare anche le altre. Un’ulteriore responsabilità, quindi.
La deriva del cosiddetto “progettificio”, magari indotta dall’esponente politico territoriale o nazionale di turno o da cordate di tale orientamento, è diffusa dentro e spesso ancor più fuori della FISH».
Torniamo alla questione delle pensioni di invalidità, sulla quale mi sembra volesse aggiungere delle considerazioni.
«Infatti. Non solo l’aumento la FISH lo ha proposto più volte e su di esso ha organizzato una manifestazione contro le politiche del governo nel 2005 [esattamente il 15 novembre del 2005. Se ne legga cliccando qui, N.d.R.] – la FISH con le sue organizzazioni, e nessun altro – ma soprattutto, come sua consuetudine, la Federazione ha anche indagato sulle radici delle questioni che non hanno consentito, o meglio che non hanno fatto mettere in agenda questo tema a nessun governo negli ultimi quindici anni. Perché mantenere questa “elemosina”? Si potrebbe eliminarla, facendo “cassa”. Attualmente c’è la crisi internazionale in corso, ma è dal ’94 che ci si sente rispondere che “non vi sono le risorse”, che “il PIL cresce poco”, che “l’evasione fiscale si mangia larga parte delle entrate dello Stato”, che “il welfare del Novecento è da riformare” perché pieno di sprechi, specie nei trasferimenti economici e così via.
Il problema è che la questione della pensione di inabilità non è dentro l’area della previdenza, ma in quella dell’assistenza, per volere di tutti i contraenti della Riforma Dini sulle pensioni – attuata nel ’95 – nonostante le diverse maggioranze che si sono succedute, ovvero le parti datoriali (Confindustria, piccole e medie imprese, commercio ecc.) e i sindacati. E aver collocato l’inabilità nell’ambito dell’assistenza che cosa comporta? Che si è determinato un sistema previdenziale in equilibrio economico e attuariale attraverso l’eliminazione di forme di sostegno al reddito come la reversibilità o attraverso l’accantonamento del problema socio-assistenziale, pensando a un futuro diverso che possa aumentare le risorse provenienti dalla fiscalità generale. Ovvero mai. Infatti, l’aumento delle pensioni minime alla fatidica somma di 516 euro mensili – livello politicamente considerato come “minimo vitale” (Legge Finanziaria del 2001) – riguarda l’area previdenziale, con risorse derivanti dai risparmi accumulati con la citata Riforma Dini del ’95 e quindi non dalle tasse dei cittadini, mentre le pensioni di inabilità dovrebbero essere sostenute da queste ultime.
Ma c’è di più, c’è una questione politica (di partito, s’intende): se il centrosinistra elimina lo “scalone” dell’età pensionabile introdotto dal centrodestra, si occupa esclusivamente di previdenza, mettendoci risorse della fiscalità generale e provocando implicitamente un’ulteriore riduzione della possibilità di affrontare la questione più assistenziale, che riguarda le pensioni di invalidità, l’indennità di accompagnamento ecc., e quindi si blocca tutto. Si blocca tutto perché non è risolta la prima questione, quella dell’età pensionabile. Nel nostro Paese, infatti, c’è un sistema previdenziale che nel suo complesso – e anche per come è stato gestito, con persone andate in pensione dopo quindici anni di lavoro – assorbe una quantità di risorse decisamente superiori alla media europea e soprattutto rispetto al sistema assistenziale (emolumenti diretti – pensioni/indennità) e socio-assistenziale (servizi), che è sottovalutato. Il problema, quindi, è complessivo, è politico; bisognerebbe trovare una modalità per riequilibrare questi due capitoli di bilancio».
Alla luce di tutto ciò, qual è il margine di azione reale che hanno le associazioni in un quadro così complesso?
«Si parla di una questione – quella dell’innalzamento dell’età pensionabile – irraggiungibile dalle “povere associazioni”, che non sono mai state chiamate ai tavoli di concertazione (come li chiamava il centrosinistra) o di dialogo sociale (come li chiama il centrodestra). La FISH, come il Forum del Terzo Settore e le sue organizzazioni. Tutte le organizzazioni sociali sono completamente escluse da quei tavoli. Ed è lì il problema.
Per la FISH la questione della partecipazione è un tema chiaro e condiviso, in virtù del fatto che si sono create delle condizioni di capacità interna – avendo costruito una Federazione unitaria, forte – che consente di essere interlocutori privilegiati rispetto alla frammentazione e che permette di disporre di tecnici dedicati ad analizzare i problemi e a proporre soluzioni. Conseguentemente si è consolidata una dimensione culturale e politica di proposizione anche su questi temi. Col risultato, però, che nulla è cambiato, perché la FISH – come altre organizzazioni sociali e di cittadinanza – ai tavoli di confronto tra governo e parti sociali non c’è.
La FISH ha elaborato un pacchetto di emendamenti, tra cui c’è anche la questione della pensione, pronto e riproposto ad ogni Legge Finanziaria dal 2000 ad oggi. Pronto lì, e riproposto sempre. A un certo punto si era giunti a costruire un percorso graduale di aumenti per arrivare ai 516 euro, al famoso milione di vecchie lire al mese, ma ancora una volta ai 516 euro al mese non si va, perché, ripeto, questa non è considerata previdenza, bensì assistenza e tale battaglia non è sostenuta neanche dalle parti sindacali, da quelle di destra, di sinistra, di centro. Non è sostenuta da nessuno. Siamo soli, assolutamente soli in questa battaglia».
La piazza antistante la Camera dei Deputati ha ospitato molte delle ultime proteste e ai parlamentari è stato attribuito l’esclusivo ruolo di poter cambiare questa condizione, sempre riguardo alle pensioni. Ma è davvero così?
«Per quanto riguarda la capacità reale dei politici di maggioranza, in particolare – visto che ovviamente costoro hanno assai più possibilità di vedersi approvare una legge rispetto a quelli dell’opposizione – vanno ricordate le parole del presidente del Consiglio, quando ha affermato che “per governare bastano una decina di parlamentari”. Questa maggioranza è blindata. Nove Disegni di Legge su dieci che vengono approvati dal Parlamento sono Disegni di Legge del Governo. Funziona così. La possibilità, dunque, che il Parlamento ha di agire su quello di cui stiamo discutendo è minima. Ed è paradossale. Dopodiché ci si deve provare ugualmente, perché il Parlamento ha delle responsabilità costituzionali verso i Cittadini che lo eleggono, fermo restando che si deve essere consapevoli che ci si ritrova davanti a una maggioranza con una sua precisa identità: il Governo governa, il Parlamento emenda, quando e se può.
Di fronte a questo stato di cose è difficile pensare che quest’ultimo abbia un potere importante, come accadeva nella “Prima Repubblica”. Bisogna esserne consapevoli e poi ben venga qualunque manifestazione che affermi le emergenze dei Cittadini con Disabilità e delle loro Famiglie. Di nuovo: questo non fa altro che portare acqua al mulino della FISH perché contribuisce a rendere le proposte della Federazione stessa credibili e condivise loro malgrado da individui e da gruppi più o meno associati. Ulteriori iniziative, insomma, portano nuova linfa a questo grande fiume sul quale si cerca di far leva per far crollare i muri».
Nel prossimo futuro vede un rischio di estinzione per le associazioni?
«Quando si afferma che l’associazionismo si deve guardare dentro e capire qual è il modo nel quale intende proseguire la sua azione, scoprendo nuove forme, nuove modalità, ovviamente si intende dire che la pena è la scomparsa o, peggio, l’irrilevanza sul piano sociale e politico.
Attualmente l’associazionismo che basa la sua esistenza sull’erogazione di servizi trova come competitor le cooperative sociali le quali hanno maggiori capacità di “stare dentro” ai meccanismi della politica istituzionale, in quanto si aggiudicano servizi in altre aree del cosiddetto “disagio”. La politica di un territorio ha più facilità ad affidare a un solido consorzio di cooperative il centro diurno per disabili anziché a un’associazione, perché quel consorzio già gestisce l’assistenza domiciliare per anziani o la casa famiglia per minori. L’idea di sostituirsi a ciò che la Comunità e lo Stato non offrono (anticipando la riforma dell’articolo 118, ultimo comma della Costituzione sulla sussidiarietà), è tuttora vincente e produce la vera innovazione nel Paese. Dopo la prima fase “pionieristica”, però, essa si mutua in “imprenditoria pura” e in questo modo la gestione di servizi rischia di creare delle confusioni tra rappresentanza del cittadino disabile e la funzione di service provider [“fornitore di servizi”, N.d.R.], risultando anche sempre più schiacciata da altri soggetti.
Oggi vi è un nuovo soggetto del mercato, l'”impresa sociale”: ovvero una struttura sociale tipicamente dedita al profitto può diventare un’impresa sociale e quindi una struttura che gestisce servizi. A fianco delle cooperative ci potranno essere anche queste imprese e a fronte di tutto ciò l’associazionismo che si è radicato unicamente nella gestione di servizi rischia davvero di implodere oppure di trasformarsi in un’impresa sociale a tutti gli effetti.
L’altro associazionismo, poi – quello che vive sul “progettificio” – trova sulla sua strada esattamente gli stessi competitor: cooperative, profit e quant’altro. Basta vedere i Progetti Comunitari Equal. Sono pochissime le associazioni che ne giovano. Non solo, ma chi amministra il programma dei Progetti Equal in Italia sostiene che le associazioni di persone con disabilità sono “fragili” e inaffidabili per la gestione di progetti; al massimo possono essere partner e non capofila.
Oppure ancora la Legge 438/98, che tradizionalmente destinava risorse alle organizzazioni delle persone con disabilità e dei loro familiari, ha abdicato alla sua funzione e ormai sostiene i “grandi contenitori” del Terzo Settore. Anche questa forma, quindi, che mette assieme politiche (quindi rivendicazione, partecipazione ecc.) con il sostegno di progetti, rischia di non avere un abbrivio sufficiente per guardare lontano».
Quale futuro quindi?
«Bisogna spostare il baricentro e ritornare a costituirsi come movimento di cittadinanza, a tutela dei diritti. Ma attenzione, perché questo non è solo un problema delle associazioni nazionali più grosse. Questo è un problema di tutto l’associazionismo. Anche e soprattutto di quello più piccolo, territoriale. Se un’associazione realizza che nella propria Provincia vi è un problema importante nell’applicazione minima della Legge 68/99 [“Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, N.d.R.] e si rivolge al Governo Nazionale per una soluzione, essa commette un grave errore, leggendo male le riforme costituzionali dello Stato, con il rischio di illudere i propri Soci e l’opinione pubblica cui si rivolge. Non sa – o peggio finge di non sapere – che il Governo, rispetto all’attuazione della norma, può poco. O meglio, in teoria, potrebbe usare i poteri sostitutivi dello Stato, ma nessuno – centrodestra o centrosinistra – lo ha mai fatto. I poteri sostitutivi dello Stato attualmente sono utilizzati solo ed esclusivamente per ragioni di bilancio o per mafia, se invece un’autonomia locale attua male una norma no. Questo, caso mai, è un problema politico serio, ma è istituzionale, complessivo. Ma se dovessero commissariare tutti i Comuni, le Province e le Regioni in virtù della mancata applicazione di una norma, cosa accadrebbe al Sud, ma anche a buona parte del Centro e anche al Nord? Avremmo un pezzo di Paese commissariato per la Legge 68…
In realtà c’è il vago sospetto che queste entità stiano cercando solo un accreditamento politico. La storia recente è piena di questi episodi di “messaggio trasversale” ad amici e nemici politici. La loro battaglia, in realtà, dovrebbe stare tutta nel territorio, dove la Provincia e la Regione hanno tutte le competenze e i poteri. Non si trova lavoro nemmeno nella Pubblica Amministrazione del territorio? L’intera responsabilità è dei livelli locali e allora li si denunci alla Magistratura e alla Pubblica Opinione!».
Ci potrebbe essere però qualcuno che dice: «Ma se non trovano lavoro e la pensione è così bassa, cosa possono fare?».
«Certo, è proprio questo il problema che la FISH continua a rappresentare ai nostri governanti da un po’ di tempo a questa parte. L’inclusione non può diventare la parola d’ordine con la quale si attende l’Araba Fenice, mentre nel frattempo le persone che vivono condizioni socio-economiche disagiate sono in difficoltà e a rischio di “esplosione”, mal digerendo gli slogan e le false promesse: reclamano reddito, la pensione o il lavoro. La loro condizione materiale è pessima, si sono stancati di attendere e vogliono vivere bene. Vogliono sapere di poter abitare in una casa, pagare un affitto o un mutuo senza ricorrere alla beneficenza di familiari o altri. Aspirare a un’abitazione dignitosa e in autonomia è negato in alcune situazioni di disabilità e in alcuni territori disagiati. Il problema politico si fa stringente: o sul piano nazionale si comprende che le politiche inclusive devono mostrare un obiettivo concreto per le persone, oppure queste andranno verso un ritorno alle politiche risarcitorie. Data una menomazione, si pretenderanno solo un po’ di soldi oppure con una disabilità al 100% e il diritto all’indennità di accompagnamento, si reclamerà solo “un po’ di più”, per arrangiare in modo migliore la propria situazione familiare. E le politiche di inclusione ovviamente verrebbero meno.
Qui sta il punto dirimente delle politiche. Rispetto alla dimensione nazionale, va detto poi che tutto questo ragionamento risente della capacità territoriale: le politiche di inclusione, infatti, si elaborano e si costruiscono in uno sviluppo economico e sociale coerente. Se non c’è uno sviluppo economico e sociale che segue le regole minime, su cosa si può fondare, ad esempio, l’intervento pubblico attuativo della Legge 68? Sul lavoro nero? Diventa ben difficile affermare che la quota d’obbligo di riserva di posti di lavoro nelle imprese debba essere prevista anche per le forme occupazionali del sommerso, se quella è l’unica che esiste in un territorio! In questi casi la pressione per le politiche risarcitorie di carattere statale (pensione, indennità ecc.) è ancora più elevata.
Fermo restando, naturalmente, che i 240 euro di pensione sono una presa in giro in Italia e che l’indennità di accompagnamento non è sufficiente a garantirsi assistenza; una quota, infatti, considerata minima per assistere una persona con disabilità grave è tra i 2.000 e i 3.000 euro al mese. Se a questo aggiungiamo che i dati della spesa dei Comuni sui servizi sociali riferiscono di uno squilibrio negli investimenti pubblici (in Calabria, ad esempio, si spendono 4 euro pro capite contro i 40 della provincia di Trento), è chiaro che le persone con disabilità che vivono al Sud si percepiscono come isolate, abbandonate e reagiscono.
O si fanno delle politiche reali, in cui si mettono fondi e si realizzano servizi, oppure tutto rischia di saltare e quindi di ritrovarsi le masse di persone con disabilità per strada a rivendicare un po’ di soldi e nient’altro, senza cioè nessun altro obiettivo che questo. Con buona pace dell’inclusione, della partecipazione, della discriminazione e delle pari opportunità».
Non le sembra appunto di constatare che, per usare una metafora, le persone rimangano e rimarranno comunque – forse giustificatamente – più attente al gradino davanti casa che ai princìpi?
«Questo è perché le politiche di inclusione, salvo che in rari casi, non esistono. Si pensi alla simbologia del citato “Ponte di Calatrava” a Venezia, che è stato chiamato “Ponte della Costituzione” (e viene ben difficile parlare in questo caso di Costituzione): se il primo ponte sul Canal Grande realizzato a Venezia da cinquecento anni a questa parte viene costruito in quel modo, questo significa che in Italia chiunque può fare altrettanto. E quindi le norme, le regole, e soprattutto i criteri inclusivi che la comunità nazionale, europea e internazionale hanno adottato non valgono nulla. E allora le persone singole o aggregate, specie in quei territori dove l’effetto delle regole si affievolisce, si rimetteranno a fare le battaglie con la mazza per abbattere i gradini. Le abbiamo fatte anche noi queste manifestazioni e non ci sono problemi a rifarle, è la nostra origine e talvolta uno strumento di battaglia obbligato se poi le politiche si riempiono di slogan senza fare un passo avanti… O meglio, non si tratta di un semplice segnale di avanzamento, ma di una scelta chiara. In questo Paese non si è optato tra politiche inclusive e tra politiche risarcitorie. Non si è scelto e basta. Prova ne è anche tutta questa faccenda dei falsi invalidi…».
Una questione spesso rilanciata dai ministri di competenza…
«Al contrario di quanto fa normalmente la FISH, per una volta prendiamo in considerazione gli abusi. Se sono così diffusi, qual è la percezione che ha la popolazione delle norme di tutela e di promozione dei diritti delle persone con disabilità? Purtroppo è diffusa la sensazione di “un nuovo recinto” di privilegio, nel quale c’è chi vuole entrare per avere accesso al centro storico e per chiedere l’avvicinamento del posto di lavoro a casa propria, se lavora nella Pubblica Amministrazione. Alla fine, insomma, la cosa forse più incredibile che è accaduta in questo Paese è che non essendo stata fatta una scelta di cosa siano le politiche inclusive e in che modo riorientare le norme che esistono rispetto all’inclusione (monitoraggi seri su quello che avviene, sulle condizioni delle persone, condizioni di discriminazione, sociali, economiche), non essendo stato fatto tutto questo ed essendo stato tenuto insieme questo doppio binario, in primo luogo la comunità nazionale nel suo complesso spende molte risorse per tenere assieme il modello medico e quello sociale fondato sui diritti. In secondo luogo, poi, si è ingenerata nella popolazione la falsa credenza che quello è “un campo a cui può aspirare”, perché non è un diritto all’inclusione, ma “un privilegio” per entrare nei centri storici e nelle Zone a Traffico Limitato! E così il paradosso è che un tempo chi possedeva il contrassegno per necessità reale lo teneva nascosto fino al momento di effettuare il parcheggio in un posto riservato. Adesso è in esibizione permanente, quasi uno “status-symbol”, tipo il pass per l’esclusivo club del golf o il circolo del tennis…
Il problema, quindi, è quello di un Paese come il nostro che non sceglie, che continua a emanare norme economiche che fotografano la situazione e la cristallizzano per decenni, come ha fatto per la previdenza e l’assistenza; altri Stati europei, invece, le riforme le hanno realizzate da anni, aumentando ad esempio il periodo di occupazione lavorativa nella vita di ogni persona – con la dovuta eccezione per alcune tipologie di lavoro – insieme agli strumenti della flexsecurity che proteggono le persone quando non trovano lavoro o l’hanno perso, reinvestendo le risorse risparmiate nell’inclusione di bisogni cosiddetti emergenti – tra i quali quelli delle persone con disabilità – ottenendo un equilibrio sulla spesa previdenziale e sociale ben diverso dal nostro».
*Presidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).