Com’è già noto a chi ci segue con attenzione, la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) ha premiato anche quest’anno le quattro scuole vincitrici – una per categoria – delle Chiavi di Scuola 2009, concorso sulle buone prassi per l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità, promosso dalla Federazione, con il sostegno, per il terzo anno consecutivo, di Enel Cuore ONLUS (il nostro testo dedicato alla premiazione dei vari vincitori, pubblicato nel mese di febbraio scorso, è raggiungibile cliccando qui).
Dopo avere dunque ascoltato nei giorni scorsi il racconto dei progetti della Scuola dell’infanzia e di quella Secondaria di primo e secondo grado, concludiamo queste nostre interviste con la Scuola primaria (le “elementari”), nel cui ambito è risultato vincitore Insegnando… in cielo in terra e in ogni luogo, condotto presso l’Istituto Comprensivo di Bastardo di Giano dell’Umbria, in provincia di Perugia.
Si tratta di un progetto di istruzione domiciliare offerto a un bimbo gravemente malato, purtroppo deceduto il 16 febbraio scorso. L’ultimo periodo della sua brevissima vita è stato arricchito dalla presenza dei compagni di classe e dei professori che nonostante l’aggravarsi della sua malattia hanno scelto di non lasciarlo solo, ma di continuare a coinvolgerlo nel percorso didattico.
Da una parte alcuni docenti hanno tenuto con continuità lezioni private al suo domicilio e dall’altra attraverso la webcam e la tecnica della videoconferenza, la classe tutta ha continuato a comunicare con lui e a mantenere il più possibile il suo posto nel gruppo di amici.
Per il preside Giuseppe Sofia l’elemento che ha reso vincente il progetto è stato quello della continuità. «La nostra vicinanza ha alleggerito molto anche i genitori, visto che siamo risultati essere l’unica agenzia educativa presente accanto alla famiglia. Il bambino è sempre rimasto in contatto con la classe grazie alla videoconferenza. In più, gli insegnanti lo visitavano da due a tre volte alla settimana».
Da quanto tempo il bambino non riusciva più a frequentare la scuola?
«Un’operazione che ha interessato il midollo spinale lo ha lasciato paralizzato a dieci anni. Ma già prima aveva avuto problemi di udito. È rimasto in classe fino al 2007, poi è subentrata una malattia che ha comportato numerosi ricoveri in ospedale, al ritorno dai quali si reinseriva per quanto possibile nella quotidianità scolastica, evitando l’isolamento. A un certo punto, però, non è stato più in grado di spostarsi da casa».
In che modo la videoconferenza ha garantito la continuità?
«Abbiamo installato un collegamento ADSL in classe e ogni giorno durante le lezioni veniva attivato. Da casa il bambino poteva partecipare, dire la sua, fare domande, parlare con i compagni. Inoltre abbiamo usato molto la posta elettronica, per scambiare notizie di vario tipo».
E le lezioni a domicilio?
«Di pomeriggio, due tre volte a settimana, l’insegnante di matematica, Cristina Cascelli, e il docente linguistico letterario, Milena Temperoni, e quasi ogni mattina l’insegnante di sostegno Serena Casali, si recavano da lui e approfondivano quanto fatto in classe. Qualche volta anche i compagni andavano a trovarlo e qualche altra volta è venuto anche lui a scuola in carrozzina, partecipando felicemente.
In occasione del Natale del 2008 siamo andati tutti a casa sua a festeggiare, e così per l’Epifania. Abbiamo fatto di tutto perché la tremenda sofferenza venisse in parte lenita».
Come si sono trovati gli altri bambini a vivere questa esperienza?
«Si sono abituati alla presenza della postazione internet con la webcam. C’era un ordine un po’ diverso nelle loro giornate a scuola e nella modalità stessa degli insegnamenti, perché si doveva fare in modo che da casa il bambino capisse tutto. Quindi, ad esempio, era necessario che gli insegnanti e i bambini stessi parlassero solo in un certo modo. Certamente è stato molto educativo anche per loro».
Com’è nata l’idea del progetto?
«Il lavoro a scuola non è un lavoro come tanti altri. La fredda organizzazione della legge, la didattica formalmente definita non portano da nessuna parte. Abbiamo a che fare con materiale umano e nei confronti degli alunni occorre una tensione positiva, altrimenti non si va da nessuna parte. Quindi il progetto è nato spontaneamente, inevitabilmente. Ci stavamo attrezzando anche per la scuola secondaria, perché quest’anno il bambino stava frequentando la quinta. Avevamo preso contatti con la scuola secondaria per mettere a punto un passaggio di consegne che prevedesse il più possibile il suo coinvolgimento nel gruppo classe».
È stato difficile realizzarlo?
«È stato un lavoro di gruppo, realizzato grazie alla spontanea e gratuita disponibilità di docenti, operatori, tecnici. Abbiamo la rinoscenza sincera da parte della famiglia e credo si sia trattato soprattutto di una vicenda umana, dove i singoli – bambini e adulti – si sono coinvolti spontaneamente e umanamente».
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