«In Italia il turismo dovrebbe essere visto come un’industria portante non globalizzabile in cui anche le persone con disabilità costituiscano un target di riferimento. Purtroppo non è così. E i disabili continuano a costruirsi le vacanze da soli».
Lo ha dichiarato a Ferrara Pietro Barbieri, presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), in occasione del quarto seminario preparatorio al Congresso Mondiale del Turismo Sociale (evento promosso dal BITS, Bureau International du Tourisme Social, che si terrà a Rimini dal 19 al 23 settembre [se ne legga nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.]). E ha ricordato anche come spesso i disabili siano costretti a portare con sé i supporti necessari a soddisfare le proprie esigenze: «Si va dalle rampe telescopische per crearsi l’accessibilità, al maniglione da posizionare nei servizi igienici per aiutarsi negli spostamenti. Il sistema non ci vede come clienti o peggio ci vede come “clienti da evitare”, perciò dobbiamo fare da soli». E tuttavia, nella maggior parte dei casi, i turisti con disabilità continuano a scontrarsi con l’inaccessibilità dei luoghi scelti per la propria villeggiatura. A partire dagli stabilimenti balneari che non garantiscono l’accesso al mare per chi, ad esempio, si sposta su una carrozzina. Ma che sono concessioni pubbliche pagate con i soldi dei contribuenti. Anche di quelli disabili.
«Siamo vissuti come lacci o lacciuoli, non come clienti», ha aggiunto Barbieri, secondo il quale la visione assistenziale della disabilità è una delle cause della mancanza di strutture adeguate ad accogliere i turisti con esigenze particolari: «Le imprese, infatti, non hanno una considerazione sistematica dei disabili, non li considerano un target su cui investire, ma aspettano l’intervento della mano pubblica. Dal loro punto di vista, è lo Stato che deve pagare». In molti casi, inoltre, si pensa che la presenza di un disabile possa inficiare le attrattive del luogo o della struttura per il resto della clientela.
«Un altro problema – ha sottolineato ancora il presidente della FISH a Ferrara – è l’aver prodotto uno standard per le soluzioni di accessibilità, oltre il quale non si va. Non si fanno cioè sforzi di carattere ideale o investimenti che superino il “minimo sindacale”. Sembra di avere a che fare con i “bignami” dell’accessibilità”. Qualche esempio? Sanitari con altezze non adeguate all’interno delle strutture alberghiere, la mancanza di sistemi tattili di orientamento per ciechi o mezzi di trasporto dedicato che costringono il disabile che si sposta con una sedia a ruote a stare in posizioni scomode. Queste esperienze ci dicono una cosa sola: che l’accessibilità non interessa».
Eppure il mercato c’è. Lo dicono i numeri. Secondo i dati diffusi dall’ENAC (Ente Nazionale Aviazione Civile), il solo aeroporto di Fiumicino tratta ogni anno un numero di disabili pari a quello di tutti i passeggeri dello scalo di Bologna. I disabili si muovono, dunque. Ma dove vanno? Secondo Barbieri, «sempre nei soliti posti. Con il rischio, nei casi in cui il rapporto tra clienti disabili e altri clienti superi quello di 1 a 10, di trasformare queste strutture in ghetti, creando l’effetto della mancanza di inclusione».
Quindi il mercato c’è, ma continuano ad esserci anche i pregiudizi. Quali sono, a questo punto, le possibili soluzioni? Secondo il presidente della FISH «è necessario superare i pregiudizi e lavorare sul riconoscimento delle discriminazioni e sulla capacità di riflettere non tanto sul rispetto delle norme quanto sul cosiddetto Universal Design (“progettazione universale”). Ma questo richiede uno sforzo imprenditoriale e progettuale nuovo, che veda anche la partecipazione dei soggetti interessati, non solo a livello di welfare, ma in tutti i sistemi istituzionali».
Ciò a cui fa riferimento Barbieri sono le cosiddette “buone prassi” che richiamano l’accessibilità fisica, la formazione e l’occupazione dei disabili all’interno delle imprese, perché, ha spiegato, «il lavoro dà un reddito al disabile, ma il disabile è in grado di usare la sua esperienza per influenzare la comunità. Ed è solo con la pratica quotidiana nei luoghi di lavoro che si superano i pregiudizi».
Le cosiddette best practices (“buone prassi”, appunto) sono conosciute a livello europeo e vi sono alcune interessanti esperienze anche in Italia, ma sono gli Stati Uniti il Paese che, dotandosi di una legge sulla disabilità, le ha elevate al rango normativo: è l’Americans with Disabilities Act (ADA), adottato dal governo di George Bush senior nel 1990: «Si tratta in realtà di uno strumento banale, ma obbligatorio – secondo Barbieri – che esprime la consapevolezza degli americani sulla necessità di inserire un disabile nei luoghi di produzione. Solo così si può produrre una svolta».
È nata così, ad esempio la figura del disability manager che, portando la propria esperienza all’interno dei luoghi di lavoro, può rompere il meccanismo del pregiudizio, e questo – ha sottolineato Barbieri – «vale molto più di un convegno sull’argomento».
Negli Stati Uniti l’ADA ha effettivamente portato a risultati apprezzabili. Un esempio? «In Europa e in Italia – ha concluso Barbieri a Ferrara – da vent’anni si acquistano autobus accessibili, ma spesso le rampe sono rotte o gli autisti non sanno come utilizzarle. Con la conseguenza che i disabili rinunciano a usare i mezzi pubblici. In città come New York o Los Angeles l’azienda municipalizzata dei trasporti ha un disability manager e, guarda caso, le rampe funzionano sempre. Non è sufficiente, dunque, comprare i mezzi, bisogna anche fare la manutenzione e formare chi li deve guidare. In altre parole, non basta ragionare sulle buone pratiche, bisogna agire e in Italia, purtroppo, si continua a investire sulla riabilitazione, mentre si dovrebbe, al contrario, trasformarla in inclusione».
*Testo pubblicato dall’Agenzia «Redattore Sociale», con il titolo di Barbieri (Fish): “Ma in vacanza prevale ancora il fai-da-te” e qui ripreso, con una serie di adattamenti, per gentile concessione.
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