Raccolgo volentieri l’invito dell’amico Dario Ianes [se ne legga nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.] a partecipare al dibattito apertosi dopo la presentazione del recente studio Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte, dell’Associazione TreeLLLe, della Caritas Italiana e della Fondazione Agnelli (Erickson, 2011).
Comincio con brio. Franz Schubert compone la Sinfonia n. 8, nel 1822, in si bemolle. Nessuno aveva mai osato tanto. La sinfonia è conosciuta con il nome di Incompiuta perché il grande musicista, morto molto giovane, non la completò mai. Scrisse i primi due movimenti: Allegro moderato e Andante con moto.
Leggendo qua e là queste notizie, mi è sorto spontaneo il paragone con la scuola dell’autonomia. Siamo partiti con un’ottima legge senza tante celebrazioni (Allegro moderato), per poi applicarla con alcune perplessità (Andante con moto). Il terzo tempo della sinfonia nessuno è mai riuscito a completarlo in questi duecento anni.
Faccio notare, non senza una punta di ironia, che Schubert l’aveva chiamato Scherzo. Non vorrei che l’analogia con la scuola dell’autonomia si estendesse anche al terzo movimento. Perché, in realtà, allo stato attuale l’autonomia è una bella incompiuta e, per scherzo, non vorrei che così rimanesse.
Partiamo da questo primo elemento per cercare di capire il da farsi. Preciso che l’autonomia non può trasformare la scuola in un “brico center” in cui ognuno può trovare quello che meglio gli aggrada. Il vincolo è, e rimane, il successo formativo di tutti gli alunni. Certo, non si può sottacere che la scuola dipende dal Ministero in ordine alle risorse economiche e professionali. A quando decisioni per lasciare alle scuole un’autonomia più ampia e più responsabilizzante?
Per esempio, non si potrebbe assegnare alla scuola un contingente di insegnanti, lasciando alla stessa la possibilità di sceglierne la tipologia? Per esempio, alunni con determinate difficoltà hanno bisogno di bravi docenti e non di insegnanti di sostegno a volte generici.
Il secondo elemento è la formazione. Non si capisce perché, nel percorso universitario, siano stati introdotti crediti formativi per la pedagogia e la didattica speciale con quantità molto differenti tra gli insegnanti della formazione primaria (32 crediti) e quelli della scuola secondaria (6 crediti). Come non si capisce perché a scuola – il “tempio della formazione” – non si reintroduca la formazione obbligatoria, riconosciuta con incentivi economici, per tutti gli insegnanti in servizio, in tutti i campi della pedagogia, della didattica inerenti tutti gli alunni.
Il terzo elemento che pongo alla riflessione dei Lettori riguarda la valutazione. Di fatto, nella scuola, l’unica valutazione strutturale riguarda gli alunni. Per il resto, dirigenti, insegnanti, non docenti, non vi è nessuna procedura strutturale. Il tutto è lasciato alla buona volontà degli operatori.
Preciso che quando parlo di valutazione intendo un processo consapevole di autovalutazione e non la “caccia alle streghe e agli stregoni” da mettere sul rogo. Ad esempio sarebbe interessante capire se nelle Regioni in cui vi è un docente ogni 1,80 alunni certificati, la qualità dell’integrazione sia più alta rispetto alle Regioni in cui c’è un docente ogni 2,65 alunni.
Il quarto elemento è la riduzione degli alunni in categorie: disabili, dislessici, normodotati, iperdotati. E chi più ne ha più ne metta. In realtà l’ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, definita nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.] ci dice che ogni persona è unica e irripetibile e che è bene premettere alla patologia la parola persona, appunto. E invece c’è il vezzo di parlare di autismi, di Down, di DSA [disturbi specifici dell’apprendimento, N.d.R.] ecc.
Questa suddivisione categoriale rischia di ridurre anche i docenti in categorie, dove nelle classi, organizzate in corsie cliniche, c’è chi si occupa degli alunni con autismo, chi degli alunni con DSA, chi di quelli iperattivi. Senza dimenticare coloro che si occupano esclusivamente degli alunni con sviluppo tipico, perché non sanno come si fa con gli alunni problematici. In tutto ciò che fine ha fatto la comunità classe? Che fine hanno fatto le leggi, le circolari, le linee guida che da trentacinque anni ci ricordano la responsabilità degli organi collegiali e non dell’insegnante di sostegno nel processo di inclusione?
Mi piace qui far notare che la Legge 517/77 usa la locuzione «insegnanti specializzati per le attività di sostegno».
Il quinto elemento è l’esigenza di cominciare una seria riflessione intorno alla qualità delle certificazioni. La certificazione dev’essere usata per ottenere risorse mirate e personale qualificato in grado di affrontare collegialmente le classi sempre più complesse e più numerose. Chiarito che è lo specialista che certifica, ritengo che la presenza dello psicopedagogista all’interno della scuola possa essere un ottimo filtro di fronte al dilagare delle segnalazioni. Per inciso ricordo che la Legge 122/10 prevede la responsabilità penale del professionista in caso di certificazione non rispondente alla normativa.
Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, dalle pagine de «La StampaWeb» ci ha invitato a lavorare nella prospettiva del superamento dell’insegnante di sostegno, così come indicato dallo studio.
Nonostante le perplessità, credo che sia una sfida da raccogliere, tralasciando i risvolti autocelebrativi dell’esperienza italiana in tema di integrazione. Personalmente preferisco una revisione critica, mettendo da parte posizioni rigidamente manicheiste. Per questo credo che senza recidere i nodi gordiani evidenziati, si rischi di mettere in campo un’ulteriore legge destinata ad essere l’ennesima incompiuta. Chi potrà, infatti, garantire che la presenza di soli insegnanti curricolari risvegli la voglia di collegialità? E chi può garantire che gli specialisti dei CRI (una sigla che ricorda involontariamente l’aspetto clinico) [CRI sta per Centro Risorse Integrazione, N.d.R.] non saranno destinati a diventare i nuovi “parafulmini” degli insegnanti rispetto al lavoro con gli alunni con disabilità?
Piuttosto perché non si applicano le leggi che prevedono l’insegnante di sostegno incardinato nel Consiglio di Classe e non come una sorta di “protesi” da applicare all’alunno con disabilità? E ancora, mi chiedo perché le decine di migliaia di insegnanti di sostegno che si sono spostati sul ruolo ordinario non possano, adeguatamente incentivati, essere utilizzati come una risorsa interna alla classe per le attività di sostegno ai casi problematici.
Ribadisco che sono disposto a lavorare in prospettiva, ma temendo tempi lunghi, credo che si possa migliorare anche il presente perché abbiamo le risorse culturali e normative adeguate allo scopo. In questo senso ci può aiutare una citazione della bravissima poetessa Margherita Guidacci: «Mentre guardavo alternamente dalle due grandi finestre affacciate sul passato e sull’avvenire, i ladri entrarono indisturbati nella stanza e mi derubarono di tutto il presente».
*Contributo personale. Giancarlo Onger è vicepresidente nazionale del CNIS (Coordinamento Nazionale degli Insegnanti Specializzati e la Ricerca sulle Situazioni di Handicap).