Accolgo con molto piacere l’invito di Dario Ianes [si veda, nel nostro sito, cliccando qui, N.d.R.] ad avviare un dibattito più profondo e meno convenzionale sul tema dell’integrazione scolastica e spero che tale dibattito non si affievolisca solo perché mette in discussione alcune certezze su prassi consolidate nel campo della disabilità.
Leggendo il rapporto dell’Associazione TreeLLLe, della Caritas Italiana e della Fondazione Agnelli, intitolato Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte (Erickson, 2011), ne ho molto apprezzato la spinta critica a interrogarci in modo innovativo su ciò che funziona e su ciò che va cambiato con determinazione nel campo dell’integrazione, per evitare il rischio di regressioni, riconducibili non solo ai tagli di questo triste periodo.
Da un po’ di tempo, infatti, mi interrogo sulla controversa figura dell’insegnante di sostegno – a tal proposito ho anche pubblicato un paio di articoli sulla testata on line «education 2.0» [li si legga cliccando qui e qui, N.d.R.] – figura chiave nel processo di integrazione e, al tempo stesso, artefice in molte situazioni di azioni davvero poco inclusive. Spesso non per volontà, più spesso perché ancora poche comunità scolastiche sono pronte per coinvolgersi collettivamente nei processi di inclusione di un bambino con disabilità.
Tutti noi conosciamo esperienze positive e di alta competenza inclusiva, ma credo che i limiti e le contraddizioni dell’integrazione scolastica siano sotto gli occhi di tutti: le numerose deleghe agli insegnanti di sostegno da parte degli insegnanti curricolari, lo scarso riconoscimento professionale degli stessi, la mancanza di specializzazione e, anche, di motivazione (sappiamo che molti insegnanti di sostegno non sono specializzati e desiderano transitare verso l’insegnamento curriculare). E poi, la frequente mancanza dei GLH d’Istituto [Gruppi di Lavoro Handicap, N.d.R.], la mancanza o la superficialità dei GLHO [Gruppi di Lavoro Handicap Operativi, N.d.R.] a cui raramente i genitori partecipano con consapevolezza e quindi, di nuovo, la delega all’insegnante di sostegno della progettazione del PEI [Piano Educativo Individualizzato, N.d.R.], che spesso diventa più una compilazione di routine che una progettazione). E tanto altro.
Quindi mi piace proprio l’invito del Rapporto e di Ianes a ripensare questa figura professionale e mi spiace che molti singoli – genitori e insegnanti – e molte organizzazioni vedano nel ripensamento un rischio e non un’opportunità per i nostri ragazzi. Infatti, i vincoli imposti dai gravosi tagli di questo periodo possono essere tradotti anche nella possibilità di sviluppare un pensiero e un agire nuovi nel campo dell’integrazione.
Apprezzo la determinazione di quanti si stanno impegnando per evitare pericolosi arretramenti degli investimenti economici nel campo sociale e della disabilità. Ritengo ugualmente necessario aprire anche altri fronti, altre domande, altre sfide. Perché, ad esempio, ci inalberiamo così tanto per la riduzione delle ore di sostegno e così poco per la scarsa formazione di tutti gli insegnanti sul tema della disabilità? Molti insegnanti, sia curricolari, sia di sostegno, non conoscono neanche la Legge 104! E fosse solo questo. Perché ci mobilitiamo così poco di fronte ai tagli della formazione di tutti i docenti? Perché molte figure professionali che si occupano di persone sono obbligate a formarsi e i docenti no? Perché non chiediamo con più forza che tutti i docenti si facciano carico dell’alunno disabile? Nei fatti, però, non solo a parole. Perché non pretendiamo che tutte le scuole indicano i GLHO e tutti i docenti vi partecipino? Che il PEI sia scritto collegialmente? E perché, dunque, non ci attiviamo anche per cercare di contrastare l’eccesso di deleghe informalmente attribuite all’insegnante di sostegno?
Ci sarebbe molto e molto altro da dire. Questi sono solo spunti, da ricondurre a un più serio e approfondito ragionamento sull’integrazione scolastica che parta, anche, dal ripensare la figura dell’insegnante di sostegno, nel senso del “ripensare la figura dell’insegnante di sostegno per aiutare la scuola a ripensare l’integrazione“.
L’integrazione scolastica non gira e non deve girare intorno all’insegnante di sostegno e alle ore che quest’ultimo ha a disposizione: questo è il rischio che stiamo correndo ultimamente, a causa anche della complessità delle situazioni sociali che la scuola si trova a dover gestire negli ultimi anni. Ma se vogliamo rimettere al centro i nostri ragazzi, gli alunni disabili, non possiamo continuare a seguire questa rotta, che può farci perdere delle importanti occasioni di integrazione.
Non so dire se le proposte che il citato Rapporto avanza siano sufficientemente valide e realistiche: ciò che importa davvero è che abbiano avviato una riflessione che spero venga tenuta viva e ringrazio, per questo, anche l’VIII Convegno sulla Qualità dell’Integrazione Scolastica e Sociale della Erickson [Rimini, 18-20 novembre 2011, N.d.R.] che dedicherà un intero pomeriggio all’approfondimento di questo tema.
Teniamo vivo questo dibattito! Serve alla scuola e, soprattutto, ai nostri ragazzi!
*Madre di una bimba con sindrome di Down, psicologa e psicoterapeuta.
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