La ricerca scientifica ha bisogno di aprirsi e integrare nel proprio percorso i concetti più moderni relativi alla disabilità, elaborati in questi ultimi decenni dai movimenti di pensiero fondati a livello internazionale dalle persone con disabilità stesse.
Di questo importante e fondamentale passaggio si è discusso anche a Parigi lo scorso febbraio, in un convegno (di cui si veda la presentazione cliccando qui) organizzato da DPI Europe (Disabled Peoples’ International) e dall’IMEW, l’Istituto Tedesco Interdisciplinare e Indipendente nel campo dell’Etica Medica, che opera sulla base della valorizzazione del ruolo attivo delle persone con malattie croniche nella misura degli effetti della biomedicina nella società.
Giampiero Griffo, relatore all’evento per conto di DPI Europe, ci propone alcune riflessioni che indicano chiaramente la strada che i movimenti delle persone con disabilità intendono seguire per stimolare la ricerca scientifica verso percorsi innovativi a partire dalle premesse.
«Nel campo della disabilità, la ricerca scientifica tradizionale ha un’impostazione di tipo medico riabilitativo», spiega Griffo. «Noi vorremmo invece che gli scienziati non si concentrassero solo sulla prevenzione e sulla cura, ma anche sulla qualità della vita. Nonostante esistano infatti nuove aree di ricerca sulle nuove tecnologie e nuove applicazioni in particolare nei campi della domotica e degli ausili, posso dire che in Europa siamo ancora abbastanza indietro, anche perché si tratta di applicazioni ancora non sufficientemente diffuse nell’ambito della qualità della vita».
Perché la ricerca così com’è impostata oggi penalizzerebbe a livello di qualità della vita le persone con disabilità?
«Nella valutazione, prevalentemente medica, e nella ricerca applicativa, una persona con disabilità viene considerata con una bassa qualità della vita, perché l’approccio prevalente è quello di ritenere che la minorazione funzionale sia sempre e comunque un elemento negativo.
In realtà questo approccio si ferma al modello medico della disabilità, che valuta le persone solo dal punto di vista soggettivo. La persona che ha una minorazione funzionale (alla vista, all’udito, alla mobilità, alla relazione ed espressione) riceve una disabilità nella maggioranza dei casi da fattori sociali e ambientali. In altre parole, la qualità della vita di una persona dipende dalle opportunità che la società mette a disposizione per superare la limitazione funzionale.
Le società, non offrendo pari opportunità o discriminando le persone con specifiche caratteristiche, producono ostacoli e barriere fisiche e comportamentali che riducono la nostra qualità della vita. Il vizio di base sta quindi nell’impostazione culturale della condizione delle persone con disabilità e, nello specifico, anche nel modo in cui si affronta il tema della ricerca di settore».
La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità come si colloca in questo processo di cambiamento?
«In una posizione di guida. Ad esempio, nel suo articolo 26, intitolato Abilitazione e riabilitazione, illustra questi due concetti slegandoli da un contesto esclusivamente medico e inserendoli in ambiti di intervento quali la salute, l’educazione, il lavoro e i servizi sociali.
In questa visione, se la riabilitazione è il tentativo di riacquistare una funzionalità perduta, l’abilitazione è una strada – a volte alternativa, a volte complementare – per garantire alla condizione psicofisica di una persona con disabilità di avere gli adeguati sostegni alla piena inclusione sociale, partendo da una situazione psicofisica cronicizzata da prendere come elemento dell’identità della persona.
La Convenzione, infatti, sottolinea all’articolo 3 (Principi) “il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa”. In altre parole, una persona in situazione di limitazione funzionale cronica non dev’essere vista come persona malata (anche se per alcune malattie degenerative o stabilizzate è, anche malata), bensì come cittadino che, in quanto tale, ha il diritto di godere, nelle condizioni psicofisiche date, dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Gli interventi da mettere in campo, in questa prospettiva, cambiano e diventano quelli di reintegrare la persona con disabilità all’interno della società a partire dalla sua disabilità, senza necessariamente trasformarla o superarla. L’obiettivo, insomma, è mettere la persona in condizione di accedere al meglio alle opportunità per una vita indipendente e per un’integrazione nella società».
Se le persone con disabilità fossero più coinvolte nelle ricerche scientifiche che le riguardano, cambierebbe qualcosa?
«Certo, questo è un punto fondamentale: Niente su di Noi senza di Noi. L’ipotesi di partenza della ricerca scientifica occidentale non ha ancora assorbito le ultime conquiste sul concetto di disabilità. Questo comporta che le sue applicazioni prendano tuttora strade poco innovative. Il convegno di Parigi promosso da DPI Europe e dall’IMEW ha sottolineato che le persone con disabilità devono partecipare ai team di ricerca sui temi della disabilità».
Qualche esempio?
«Prendiamo la scienza statistica. Ci sono moltissimi dati sulle pensioni e sul precariato lavorativo, mentre invece mancano analisi relative alla misura della mancanza di pari opportunità e/o discriminazione nel campo dell’accessibilità e della mobilità nelle città. Se gli approcci statistici applicassero nelle premesse i contenuti dell’articolo 31 della Convenzione ONU, queste carenze verrebbero colmate».
Cosa dice l’articolo 31?
«Si intitola proprio Statistiche e raccolta dei dati e impegna gli Stati a raccogliere le informazioni appropriate per formulare e attuare le politiche necessarie ad applicare la Convenzione e in particolare “per identificare e rimuovere le barriere che le persone con disabilità affrontano nell’esercizio dei propri diritti”. Tra l’altro, prevede anche un dovere di diffusione dei dati statistici in modo accessibile a tutti e quindi anche alle persone con disabilità».
Nel campo della formazione universitaria sono stati fatti già dei passi importanti, proprio in questi ultimi anni.
«Grazie alla collaborazione con alcuni importanti atenei italiani, da alcuni anni sono stati istituiti i primi corsi che insegnano il nuovo approccio basato sullo studio dei diritti umani delle persone con disabilità, con una fondamentale impostazione storica. Dico fondamentale perché nessuno prima aveva raccontato la storia della disabilità: lo hanno fatto i movimenti delle persone con disabilità in questi ultimi anni, togliendo ad esempio dalle pastoie della censura notizie come quella della disabilità di Giuseppe Garibaldi. Da questo punto di vista, l’Italia ha un ruolo propulsivo e all’avanguardia».
Si tratta però di un tipo di cultura ancora settoriale.
«Infatti l’accesso vale solo per chi ha un interesse specifico all’approfondimento. Manca invece una formazione diffusa a tutte le professioni. Oggi, un medico oppure un magistrato, che debbano rapportarsi estemporaneamente con casi legati alla disabilità, vi accedono con una chiave di lettura basata sul senso comune, con riferimenti legati al vecchio modello medico della disabilità. Manca, insomma, un insegnamento sulla nuova visione internazionale impartito agli studenti a livello curricolare».
Ci sono già degli esempi di collaborazione tra il mondo della disabilità e la ricerca scientifica?
«Sì, anche in Italia, dove ad esempio il CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità) ha partecipato come partner ai progetti europei MHADIE e MURINET, relativi alle applicazioni dell’ICF (la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità), in contesti di raccolta dati. In particolare, nell’ambito di MURINET, il CND è riuscito a imporre che i ricercatori junior in Europa, quando raccolgono dati sulla disabilità, devono avere una formazione specifica sui diritti umani».
Si attiverà una collaborazione anche con Carlo Francescutti, responsabile dell’Agenzia Regionale della Sanità del Friuli Venezia Giulia, ente che dal mese di luglio del 2007 ha assunto il ruolo di Centro Collaboratore OMS per le Classificazioni Internazionali ICF?
«Esattamente. In particolare gli accordi prevedono che la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e DPI Europe diventeranno ricercatori partner del Centro triestino».
A livello europeo a che punto stiamo?
«Purtroppo ancora indietro. DPI Europe e l’Università di Leeds in Gran Bretagna hanno aperto proprio in questi ultimi anni una discussione a tale proposito. Di recente l’EDF (European Disability Forum) ha ricevuto un finanziamento europeo per analizzare a che punto si trovi la ricerca nel campo della disabilità. Manca però ancora la consapevolezza dei centri di ricerca e delle università relativamente ai nuovi approcci legati alla ricerca in questo ambito».
Questa trasformazione della ricerca richiede anche molta competenza tecnica tra le persone con disabilità che vogliono essere coinvolte in prima persona…
«Infatti si tratta di una contaminazione reciproca. Anche i nostri movimenti devono valorizzare esponenti formati e competenti, in grado di attivare un dialogo non solo dal punto di vista dei valori generali, ma capace di addentrarsi nell’approfondimento più tecnico, diventando esperti nel campo della ricerca applicata alle persone con disabilità, in modo tale da essere inclusi nei team degli scienziati».
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