A Valentina Boscolo, una giovane componente del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), piacerebbe tanto leggere «storie in cui la disabilità sia vissuta con assoluta normalità nella vita quotidiana, se possibile con un taglio vincente e non drammatico e/o pietistico».
Passo in rassegna la mia personale classifica di donne disabili vincenti. Nunzia (Annunziata) Coppedè è uno dei primi nomi che mi vengono in mente. Nunzia è una delle figure di spicco della Comunità Progetto Sud di Lamezia Terme (Catanzaro), ed è anche presidente della FISH Calabria (Federazione italiana per il superamento dell’handicap). È una donna forte, Nunzia. È sopravvissuta all’esperienza dell’istituzionalizzazione e vive in un territorio difficile – la Calabria – dove si batte in prima linea per il rispetto della legalità. La sua storia trasmette fiducia e speranza.
Chissà se la generazione di Valentina conosce storie come la sua? Se le conoscesse capirebbe come, per molte persone – non solo disabili -, la normalità ha il sapore di una conquista. Grazie, Nunzia! La tua testimonianza e il tuo impegno sono preziosi. (Simona Lancioni)
Quali sono, Nunzia, le caratteristiche che descrivono meglio la tua persona?
«Io sono una persona sopravvissuta a un’esperienza di istituzionalizzazione forte. E sono consapevole che non tutti coloro che hanno vissuto un’esperienza simile sono riusciti a superarla e a intraprendere un percorso di inclusione sociale. Con ciò voglio dire che anche chi è riuscito a venir via da quelle situazioni, non sempre è riuscito a superare, a smaltire quel trauma a livello mentale. Io invece non solo sono sopravvissuta, ma ho trovato proprio in quell’esperienza la forza e la determinazione per costruirmi un progetto di vita. Un progetto di vita che non è un progetto individualista – non ho pensato solo a risolvere i miei problemi -, ma è quello di realizzarmi con la gente, con gli altri e per gli altri.
Penso inoltre di essere una persona molto forte perché quello che ho subìto poteva fregarmi del tutto e rubarmi del tutto la vita. L’istituzionalizzazione si è rubata quindici anni della mia vita, ed è vero, ma mi ha anche dato delle chiavi di lettura della realtà e una forza che non avrei avuto se non avessi fatto quell’esperienza. Infatti, nonostante la mia visibile disabilità, che mi ha messo fortemente alla prova anche dal punto di vista dell’autonomia, nonostante il fatto di essere nata in una famiglia senza strumenti (per cui non ho potuto avere tutto ciò che mi occorreva inizialmente), nonostante i quindici anni trascorsi in un’istituzione totale, nonostante tutto questo, io oggi posso dire di sentirmi una persona realizzata».
(«Questo istituto non era il luogo che sognavo, svanì presto in me ogni possibilità di continuare le scuole. […] c’era una signorina che aveva superato i cinquant’anni e si chiamava Teresina, noi la chiamavamo “il Boione”. Tutti i giorni, mentre ci insegnava a cucire, ci diceva che noi eravamo invalide e che quelle come noi che restavano in famiglia prima o poi finivano sul marciapiede a chiedere l’elemosina. Ci invitava poi a pregare il santo fondatore dell’istituto […]. Queste cose piano piano sono penetrate dentro di me. Riuscivo persino a ringraziare Dio per avermi salvata dai mali del mondo. Non ero sola, eravamo in tanti, bastava rassegnarsi. Mi sentivo brutta, avevo vergogna a mostrarmi agli altri e rimanere lì mi faceva sentire protetta» (Nunzia Coppedè, Al di là dei girasoli, Roma, Sensibili alle Foglie, 1992, pp. 27-28).
Hai trascorso – «bruciato» è il termine che usi – quindici anni della tua vita al Cottolengo. Da allora è passato tanto tempo, cosa ti è rimasto di quella esperienza?
«Oltre alle considerazioni espresse nella risposta precedente, mi è rimasta un’altra cosa importante, un chiodo fisso. Tutto quello che io ho fatto, e che continuo a fare, ha come obiettivo quello di eliminare per sempre le istituzioni totali, ma, rendendomi conto che questo obiettivo non è realizzabile, allora cerco in tutti i modi di far fare questa esperienza al minor numero possibile di persone. Impiego tutte le mie azioni, tutto il mio vissuto per far capire che l’istituzione totale non può essere una risposta.
Le istituzioni totali sono ancora una realtà diffusa nel nostro Paese. Molte Residenze Sanitarie Assistenziali, ad esempio, sono a tutti gli effetti istituzioni totali. E saranno anche un po’ più piccole, ma non per questo meno violente».
(«Un giorno arrivò una delle solite visite dei benefattori con le mille lire da metterci in mano. […] Tra i visitatori c’era una donna incinta che scappò subito dal reparto piangendo disperatamente. Gli era venuta la paura che le nascesse un figlio come noi. Mi dissero che si era spaventata delle mie gambe sbilenche e deformate. Da quel giorno mi fu messa una coperta sulle gambe, leggera in estate e pesante in inverno. […] Ormai la coperta sulle gambe mi accompagnava dovunque. Anche a casa in vacanza» (Coppedè, Al di là dei girasoli cit., p. 52).
Sei stata liberata dalla coperta solo quando – lasciato l’istituto, e arrivata in una Comunità – qualcuno te la nascose. Hai mai scoperto chi è stato? Vuoi dire qualcosa a questa persona? Quali sono oggi le coperte – le dipendenze – più insidiose con le quali le persone disabili devono ancora fare i conti?
«Io so chi mi ha rubato la coperta [ride divertita]. Me l’ha nascosta Mariapia Bertinotti, una persona che vive a Capodarco, la moglie di Augusto Battaglia [ride ancora]. All’inizio, dopo che me l’aveva nascosta, ho avuto davvero problemi ad andare in giro senza coperta perché questa cosa era penetrata molto dentro di me, e avevo paura a mostrarmi. Per cui inizialmente ero davvero disperata. Però questa “terapia d’urto” mi ha aiutata a superare l’impatto con la gente. Ciò che poi è diventato la normalità. Vorrei dire a Mariapia che questo atto mi ha aiutato a liberarmi da un incubo, dagli spettri dell’istituzione totale e anche ad accettare di più il mio corpo, ad accettare di più certi aspetti della mia disabilità. La ringrazio moltissimo per questo.
Rispetto alle dipendenze con le quali ancora oggi le persone disabili devono fare i conti, molte di esse sono legate alla famiglia. Si dipende dalla protezione che la famiglia offre, si ha paura dell’autonomia, di lasciare “la sicurezza” e di esporsi. Nei giovani con disabilità ritrovo molto questo aspetto. Io sono vissuta in istituto sino ai venticinque anni, e ne sono uscita, pur con tutte le difficoltà che mi sono trovata ad affrontare. Ma io a venticinque anni mi consideravo già una donna adulta. Mi ricordo che nella Comunità di Capodarco ho conosciuto molti giovani con disabilità, eravamo circa una cinquantina, ma avevamo tutti l’idea e la voglia di “conquistare il mondo”. Oggi, invece, vedo molta passività. Giovani con disabilità di trent’anni ancora sotto la protezione della famiglia, che si sentono adolescenti, non adulti».
Sei stata una delle fondatrici della Comunità Progetto Sud, a Lamezia Terme, nel cuore della Calabria. Una realtà che, sin dai suoi esordi, ha scelto di non occuparsi esclusivamente di handicap, ma di marginalità in generale, fino a divenire un aggregato di gruppi autogestiti, di famiglie aperte e di servizi, di laboratori artistico artigianali e di altre iniziative di solidarietà, di condivisione, di accoglienza. Attualmente la Comunità ha un forte radicamento territoriale ed è attiva nei seguenti settori: disabilità, minori, tossicodipendenza, AIDS ed economia sociale. Cosa ti ha insegnato il confronto con la multiforme diversità delle persone che ospitate? Cosa pensi che abbia insegnato loro il confronto con le persone disabili?
«A me il confronto con queste persone ha insegnato moltissimo. Mi ha insegnato a venire fuori dai “confini” della disabilità. Mi ha dato la consapevolezza che la disabilità genera situazioni molto particolari e difficili, ma anche che non è l’unica esperienza a produrre questi effetti. In questo confronto, paradossalmente, molte esperienze si incontrano più di quanto non si scontrino. Ci sono delle esperienze abbastanza simili perché, ad esempio, chi soffre di tossicodipendenza magari si è fatto anche il carcere, ha vissuto situazioni pesanti. Anche gli immigrati, altro esempio, solitamente vivono situazioni pesanti. Sono tutte esperienze forti che nel confronto fanno emergere anche dei punti in comune. Anche loro si sentono aiutati da questo confronto, me l’hanno detto esplicitamente; è un riconoscersi in esperienze di sofferenza e di difficoltà comunque simili perché per tutti comportano una fatica e una lotta per la sopravvivenza.
Io so di essere stata un modello per molte persone che non avevano una disabilità, ma avevano altri problemi – magari di droga -, perché constatavano che io, malgrado la mia gravissima disabilità, non solo ero così impegnata, ma addirittura, riguardo a certi aspetti, riuscivo anche ad essere d’aiuto agli altri, a dire loro delle cose importanti. Questo, a loro, dava forza, ed era molto utile.
Quando ho scritto il libro Al di là dei girasoli, nel 1992, poi sono andata in giro per tutta l’Italia a presentarlo e in quelle occasioni la cosa che mi ha colpito di più era il linguaggio comune utilizzato dalle altre persone che venivano da esperienze in istituzioni totali che non erano istituti per disabili. Riscontravo in esse un linguaggio e atteggiamenti comuni generati dalla comune esperienza di spersonalizzazione della persona. Questo aspetto emerse in modo chiaro. Queste esperienze di conquista e di fatica però ti danno anche la forza, non solo di confrontarti, ma di essere anche di aiuto e di stimolo per il prossimo».
Vuoi raccontare qualcosa della tua vita in Comunità?
«Io oggi non saprei pensare per me una vita diversa da quella che faccio in Comunità. Mi batto da sempre per promuovere e garantire la Vita Indipendente delle persone disabili, ma non penso che questa sia la scelta giusta per me. Vivere in comunità implica sia la convivenza con altre persone, sia una progettazione comune, sia, infine, delle responsabilità in comune. Se avessi voluto, avrei potuto scegliere di vivere in modo diverso. C’è chi preferisce andare a vivere da solo/a. Io preferisco vivere in una comunità, dove comunque faccio tutto quello che voglio. A me vivere in comunità piace moltissimo perché in essa ho ritrovato in qualche modo la famiglia che avevo abbandonato da piccola, ho ritrovato le relazioni affettive, relazioni importanti che mi hanno aiutato a diventare quella che sono. Poi è uno stile di vita che mi piace perché la comunità dove vivo è una comunità autogestita, non è una casa alloggio, è una casa dove noi, persone con disabilità e non, viviamo.
Con l’autogestione noi progettiamo insieme, andando anche al di là della disabilità, prestando attenzione alle esigenze del territorio e alle politiche sociali. Dopo l’esperienza di deprivazione totale vissuta in istituto, poter vivere con persone con le quali ho scelto di stare, con le quali mi trovo bene e condivido molte cose, poter realizzare me stessa e riuscire anche ad aiutare gli altri a superare le loro situazioni di emarginazione, per me tutto questo corrisponde perfettamente a ciò che avevo in mente quando sono venuta via dall’istituto. Questo è uno stile di vita che mi piace davvero molto, e non saprei immaginarmi una vita diversa».
La crisi che sta investendo il mondo occidentale sembra renderci tutti più fragili. Anche i diritti più elementari – studiare, lavorare, scegliere dove e come vivere – hanno smesso di essere “percorsi ordinari di vita”, per diventare oggetto di rivendicazione anche per le persone non disabili. Ci si aspetta che ai problemi socialmente creati siano le singole persone a cercare e trovare risposte individuali, ad agire su questi problemi utilizzando le proprie risorse, ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte, nonché del successo o del fallimento delle proprie azioni. Non sono più solo le persone disabili ad avere la sensazione di non avere il controllo della propria vita e, un po’ per tutti, la normalità comincia ad avere il sapore di una conquista. Alla luce della tua esperienza, cosa ti senti di dire alle giovani persone con disabilità che – come te – la normalità se la devono guadagnare di giorno in giorno partendo da un’oggettiva situazione di svantaggio?
«Io vivo al Sud, vivo in Calabria, dove la situazione dei giovani con disabilità è quella a cui ho accennato in precedenza, dove ancora molti sono sotto la protezione di mamma e papà. Purtroppo solo pochi chiedono il lavoro, perché chi lo chiede ha superato i 40-45 anni. Prima vanno a scuola il più possibile, ma poi, quando si tratta di cercare lavoro, non ci credono fino in fondo. Questo perché la disoccupazione dilaga per tutti, e molti – anche tra i disabili – pensano: “se non lavorano i padri di famiglia, vogliamo far lavorare i disabili?”. Coloro che davvero vogliono andare a lavorare si mettono in lista d’attesa, ma, purtroppo, molte aziende chiudono, altre sono aziende piccole, oppure sono aziende già sature, dove hanno già impiegato qualcuno con disabilità. Per cui non c’è molta speranza.
In quest’ultimo periodo la situazione sta anche peggiorando perché la crisi economica e quella del lavoro sono molto forti. Dico sempre ai giovani che quello che hanno trovato è ciò che è scaturito da lotte molto faticose. I giovani, avendolo trovato, pensano che tutto sia dovuto, che quelle conquiste non siano in discussione. In realtà non è così, e se vorranno mantenere almeno quel poco che hanno, dovranno anche loro darsi da fare. Non possono pensare di passare la loro vita all’interno di una casa, senza far niente tutto il giorno, dentro a quatto mura, perché così si torna indietro di cinquant’anni. Finita la scuola non c’è nient’altro. I giovani hanno paura ad uscire di casa. Loro escono solo con mamma e papà… non è possibile! Anche coloro che vanno all’università, dopo non si capisce più che fine fanno. Manca la volontà di unirsi per portare avanti anche delle opinioni anche politiche. Purtroppo stiamo perdendo anche quel poco che abbiamo ottenuto. A ciò va anche aggiunto che spesso raggiungere i giovani è difficile».
L’impegno per il riconoscimento e il rispetto dei diritti delle “fasce deboli” non è un’attività neutra. In alcuni casi può avere l’esito di uno scontro diretto con chi nell’illegalità vive e prospera. Il 4 novembre 2009 qualcuno ha tagliato i freni del veicolo che usi abitualmente per i tuoi spostamenti. Non un semplice avvertimento, ma un vero e proprio attentato. Un gesto criminale e vigliacco che ha indotto molte persone oneste a manifestarti stima e solidarietà. Quali riflessioni ha suscitato in te questo episodio?
«Io vivo in comunità e sono consapevole che la Comunità può dare fastidio a qualcuno. Io lavoro in una palazzina confiscata alla mafia. Operare nel sociale, negli ambienti della droga, dell’immigrazione ecc., in una realtà come quella della Calabria, può suscitare anche questo tipo di reazioni.
Io credo che l’attentato fosse destinato alla Comunità e non a me. Era un avvertimento alla Comunità e, per caso, hanno beccato due macchine di cui una era la mia. Ovviamente l’episodio non ha cambiato nulla nelle nostre scelte politiche, l’unico cambiamento è stato l’installazione di un impianto di video-sorveglianza».
In più occasioni hai rivendicato la tua appartenenza di genere, «la donna dietro l’handicap». Rispetto a quando eri ragazza, quali sono i cambiamenti positivi più rilevanti che riscontri nella condizione delle ragazze disabili di oggi? Quali invece gli àmbiti nei quali bisognerebbe investire di più?
«Mi sembra che le ragazze disabili di oggi si creino meno problemi di un tempo. Si truccano, si vestono cercando di seguire i modelli sociali che hanno. Però non so se questo corrisponda realmente a una maggiore accettazione della disabilità. Forse non è un’accettazione profonda, mi sembra più un volersi mostrare agli altri in un certo modo.
Io ho avuto molte difficoltà nell’accettare il mio corpo, pensavo che fosse proprio il mio corpo “la causa” della mia istituzionalizzazione. Accettarlo è stato molto faticoso. Oggi vedo le giovani con disabilità tutte truccate, che vestono in un certo modo, e questo è un dato positivo. Però, rispetto alla mia generazione – quella del ’68, della contestazione -, le vedo molto più propense a seguire i modelli sociali; questo mi sembra un po’ superficiale. Penso che dovrebbero lavorare di più sull’accettazione della disabilità. Io ho paura che questi atteggiamenti, queste “maschere” siano un modo per cancellare la disabilità. E invece è molto importante avere consapevolezza sia della disabilità che delle abilità, è importante avere lo stimolo ad essere protagoniste, ad includersi. Non accettare di essere escluse, ma lottare per essere incluse. Molti giovani disabili davanti a un gradino si fanno aiutare per superarlo, quando sarebbe molto meglio se si battessero per farlo levare. C’è una tendenza ad adattarsi».
Non è più così difficile trovare informazioni sulle donne con disabilità. Lo stesso Gruppo Donne UILDM – nel suo piccolo – investe parecchie energie per mettere a disposizione un po’ di materiale sulle tematiche che le riguardano. Tuttavia continua ad esserci una grande assente: la donna con disabilità che ha superato i 50-60 anni. Sai raccontarci qualcosa di questa donna?
«Io rientro proprio in questa fascia di età. Se andiamo a vedere all’interno delle diverse associazioni/organizzazioni di disabili, questa fascia di età è abbastanza rappresentata, e spesso queste donne ricoprono anche ruoli di rilevo.
Io credo che chi ha intrapreso un percorso di attivismo nelle associazioni continua a portarlo avanti anche quando raggiunge questa soglia di età (se non si ammala prima); le altre, forse, faranno le anziane in casa, oppure andranno a finire in qualche Residenza Sanitaria Assistita».
Cosa fai quando vuoi rilassarti, divertirti e ricordare a te stessa che sei una donna?
«Quando voglio rilassarmi di solito mi ritiro in camera mia, ascolto musica, oppure faccio dei “giri” in internet. Alcune volte leggo, ma, avendo il problema di non riuscire più a girare le pagine dei libri, leggo attraverso il monitor del computer. Altre volte guardo un po’ di televisione e, se mi riesce, dormo. Oppure esco, vado a farmi un giro. Quando voglio ricordarmi che sono una donna, vado dal parrucchiere, mi trucco, oppure mi vado a comprare un vestito nuovo, una cosa un po’ carina. Oppure dico “oggi mi voglio vestire un po’ bene”. Come tutte!».
*Testo già apparso, con il titolo di Il sapore della conquista: intervista a Nunzia Coppedè, nel sito del Gruppo Donne UILDM. Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti, per gentile concessione della curatrice Simona Lancioni e dello stesso Gruppo Donne.
– Belotti Adriana, Coppedè Nunzia e Facchinetti Edoardo (2005), Il fiore oscuro. Sessualità e disabili, Roma, Sensibili alle Foglie.
– Bomprezzi Franco (2009), Questa vicenda non deve cadere nel silenzio e nell’indifferenza, in «Superando.it» (cliccare qui).
– Borgato Stefano (2009), Solidali e vicini a Nunzia Coppedè, in «Superando.it» (cliccare qui).
– Coppedè Nunzia (1992), Al di là dei girasoli, Roma, Sensibili alle Foglie. Testo disponibile anche cliccando qui.
– Coppedè Nunzia (2010), Non sguazzavamo nell’oro, ma ora si rischia di andare molto peggio, in «Superando.it» (cliccare qui).
– Coppedè Nunzia (2007), Non ghetti, ma luoghi di vita, in «Superando.it» (cliccare qui).
– Coppedè Nunzia (2010), Persone con disabilità in Calabria: da dove partire per costruire politiche inclusive?, in «Alogon», n. 86 (cliccare qui).
– Panizza Giacomo (2009), E’ stato un attentato, non un semplice avvertimento!, in «Superando.it» (cliccare qui).
– Per una Calabria che offra pari opportunità a tutti (2010), in «Superando.it» (cliccare qui).
– Quello «sgombero» ci ha sconvolto, ma bisogna ripartire (2009), in «Superando.it» (cliccare qui).
– Varano Aldo e Coppedè Nunzia (1997), Io, handicappata e donna così ho imparato ad amarmi. Il femminismo ha trascurato quelle come noi, in «Alogon», n. 43 (cliccare qui).
Siti di interesse:
– «Alogon» (la rivista della Comunità Progetto Sud): www.c-progettosud.it/alogon/indice.html
– Comunità Progetto Sud: www.c-progettosud.it/Index.html
– FISH Calabria: www.fishcalabria.org
– Nunzia (pagina personale): www.nunziacoppede.it.
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