È duplice il significato che comunemente si attribuisce al termine autodafé: “fatto da sé” e “atto di fede”. Ed è proprio un autodafé che mi accingo ironicamente a pronunciare.
Tale penoso atto riguarda il supposto incauto uso dei termini “disabilità gravissima”, i “gravissimi” e simili. Rispetto al classico autodafé dei tempi dell’Inquisizione, vi è però una sostanziale differenza: non è un’abiura, ma un semplice riconoscimento di un atto incauto e la mancanza di cautela è stata quella di non aver preventivamente valutato che poteva esser raggiunto il risultato desiderato – richiamare cioè l’attenzione “anche” degli addetti ai lavori sulla situazione assistenziale e non solo su quella delle persone che necessitano di maggiori sostegni – semplicemente usando altri termini.
Perché poi, in sostanza, è solo di termini che si tratta, non certo della mancata condivisione della filosofia che li supporta. Se qualcuno ciò non crede – cioè che condivido/condividiamo totalmente il lungo cammino delle persone con disabilità e delle associazioni che le rappresentano, anche perché è un cammino che ho/abbiamo percorso anch’io/noi e a piedi scalzi – erra.
Pertanto è un autodafé nella sua duplice accezione: nessuno mi ha costretto o consigliato a farlo e la fede è la comune fede in un domani migliore e in un oggi migliorabile per tutte le persone con disabilità.
Ciò fatto e “purgatami l’anima” da ogni colpa, sperando di non esser poi arso vivo dai “custodi dell’ortodossia” – com’era costume fare con gli eretici – una cosa però vorrei pervicacemente sottolineare.
I bisogni delle persone che necessitano di maggiori (= estremi) supporti riguardano non solo le persone stesse, ma anche le loro famiglie (il caregiving familiare, non solo quello primario, ma quello di tutta la famiglia, con ruoli interscambiabili tra i vari membri) e non sono solo quelli delle persone in stato vegetativo o di minima coscienza e neppure solo quelli di persone purtroppo nello stadio terminale (termine terribile e orribile, ma chiaro) di una patologia fortemente invalidante, ingravescente e a esito letale. Sono infatti anche quelli di chi permane in uno stato di perfetta coscienza, nessuna autonomia e vita totalmente dipendente anche per decine di anni da persone (generalmente familiari) e/o da macchinari.
Ebbene, anch’essi devono poter vedere ridotto il loro “svantaggio sociale”, ma ancora una volta ciò non dev’essere ad onere e cura solo della famiglia.
Vorrei anche ricordare – piaccia o non piaccia, ma spero che piaccia – che possono esistere maggiori differenze di necessità “di supporto” tra due persone impropriamente definite entrambe “con disabilità grave”, che non tra una persona senza disabilità e una “con”.
Provo a spiegarmi meglio: la normativa attuale – e le definizioni sono parte fondamentale della normativa perché ne individuano i beneficiari – accerta gli stati invalidanti e condiziona l’erogazione di servizi e prestazioni all’invalidità totale (indennità di accompagnamento) e/o all’handicap in situazione di gravità o anche, a livello locale, allo stato di non autosufficienza. Peggio di così altro non vi è! Infatti, chi può ritenere, in tutta onestà, che tra le persone “riconducibili” alle situazioni appena citate, non vi possano essere anche grandi differenze di necessità di supporto? E queste “maggiori necessità”, come le individuiamo e che risposta diamo a queste persone e alle loro famiglie?
Ritengo insomma che non esistano, al momento, strumenti idonei a tali fini. Tanto meno consolidati e condivisi. E, teniamolo sempre presente, strumenti che nulla tolgano ad altre persone disabili con aspettative, esigenze e piani di vita differenti.
Ecco, ho usato termini diversi. Ma è cambiata la sostanza?
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