Mi sembra importante intervenire nell’interessante dibattito in corso su Superando in relazione al concetto di “disabilità gravissima” (si vedano gli articoli di Giorgio Genta e Dario Petri, pubblicati nel periodo dicembre 2011/febbraio 2012 e le repliche agli stessi di Giampiero Griffo nello stesso periodo [l’elenco completo dei testi pubblicati su queste tematiche, compresi quelli qui citati, è in calce al presente articolo, N.d.R.]) cercando, da persona disabile che per oltre un ventennio è stata impegnata nell’ambito associativo, di apportare ulteriori elementi di riflessione, basati sulla concretezza del dato reale, su di una problematica a mio avviso di rilevanza strategica, in un momento storico caratterizzato dalla crisi finanziaria in atto sul piano internazionale, con i correlati «pericoli di un costante peggioramento, nel nostro Paese, per la situazione delle persone con disabilità, con l’inaccettabile prospettiva di un ulteriore regresso del welfare» (su questo si veda l’interessante contributo Vita Indipendente e ISEE: il nuovo contesto del welfare, a cura della Segreteria Operativa di ENIL Italia, sempre in Superando [cliccare qui, N.d.R.]).
Tornando dunque ai contributi sopra citati, mi sembra di poter dire – riassumendo le posizioni espresse dagli Autori – che Genta e Petri, proprio partendo da un’analisi che individua i pericoli di riduzione della platea dei beneficiari delle prestazioni assistenziali derivanti dalla ventilata introduzione dell’ISEE, personale e/o familiare [l’ISEE è l’Indicatore della Situazione Economica equivalente, N.d.R.], come principale metro per l’erogazione delle previste provvidenze economiche (ad esempio l’indennità di accompagnamento), propongono appunto – in chiave difensiva e di tutela – il «riconoscimento giuridico di tale situazione di disabilità e [i] provvedimenti conseguenti. Una definizione precisa e giuridicamente vincolante del termine “disabilità gravissima”, ad esempio, circoscriverebbe notevolmente il numero dei soggetti da tutelare e si potrebbe pervenire a un calcolo esatto dei costi previsti dai provvedimenti. Al limite, tali costi potrebbero anche non comportare aumenti di spesa, ma salvaguarderebbero almeno i gravissimi e le loro famiglie da mortiferi “tagli” assistenziali» [il testo integrale è disponibile cliccando qui, N.d.R.].
Il ragionamento è chiaro e, per altro, già fatto in passato: considerata la riduzione delle risorse, destiniamole, con priorità, ai casi più gravi, mediante un’ulteriore circoscrizione delle situazioni “gravissime”, rispetto ai parametri attualmente previsti dalla normativa vigente (Legge 18/80 e successive modifiche e integrazioni, per il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento e articolo 3, comma 3 della Legge 104/92 e successive modifiche e integrazioni, per il riconoscimento dell’handicap in situazione di gravità). Su questo tornerò sotto, con riferimento all’applicazione in ambito regionale (Lazio) della Legge 162/98 sui piani di assistenza personale autogestita.
Ben diversa, ovviamente, la posizione espressa da Griffo, che ribalta il ragionamento, sostenendo che «proprio perché sono cambiati i paradigmi culturali sulla disabilità, dopo l’approvazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, è proprio ai “politici”, alle istituzioni, ai tecnici e a tutti coloro che in varie forme si occupano di persone con disabilità che dobbiamo trasmettere un linguaggio coerente e condiviso, basato sul rispetto dei diritti umani»; di qui un ribaltamento del problema, sul piano politico e culturale, che porta a concludere che «il concetto di condizione di gravità non viene mai utilizzato nel Trattato. Viene bensì sottolineata, nel Preambolo – che è la base interpretativa del testo vero e proprio – “la necessità di promuovere e proteggere i diritti umani di tutte le persone con disabilità, incluse quelle che richiedono un maggiore sostegno” (punto j del Preambolo)» [il testo integrale è disponibile cliccando qui, N.d.R.].
Si tratta, senz’altro, di un approccio totalmente differente, per me affascinante, coerente con le nuove prospettive che la Convenzione ONU – ancorché recepita dal nostro Paese con la Legge 18/09 – ha aperto, ma che dobbiamo ancora capire come potranno sostituire, prendere il posto, abolire superandole, le normative ordinamentali vigenti le quali – pur nella loro frammentarietà e spesso confusa applicazione – costituiscono il quadro di riferimento attuale per il riconoscimento dei diritti, l’attribuzione dei benefìci, la possibilità stessa di garantirsi adeguata assistenza, di accedere a un lavoro, di arrivare a un’integrazione sociale, di conquistare quei diritti di cittadinanza che permettono di uscire dalla condizione di assistito e, per quel che è possibile, dallo stigma dell’handicap.
In questo snodo – fra il “nuovo” che avanza e il “vecchio” con cui dobbiamo ancora fare i conti – intendo collocare la mia riflessione, fondata su una significativa esperienza personale, che si interfaccia con gli elementi che sono stati sommariamente richiamati in premessa.
Sono una persona disabile di 53 anni per esiti di tetraplegia spastica, aggravati da scoliosi idiopatica sopravvenuta e trattata chirurgicamente, intervento in esito al quale sono costretto in carrozzina, dall’età di 20 anni; sono celibe e vivo a Rieti – in un appartamento ATER [Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale Pubblica, N.d.R.], per fortuna accessibile – insieme a mia madre, invalida al 100%, ma ancora parzialmente autosufficiente.
Credo dunque di poter essere incluso – a pieno titolo – in quella categoria che Genta definisce della “disabilità gravissima” (sono costretto a spostarmi in carrozzina elettronica con sistema di postura e sono totalmente dipendente dagli altri per lo svolgimento degli atti della vita quotidiana), nonché, per dirla in un altro modo, di essere titolare di un diritto pieno a quei “maggiori sostegni” dei quali parla Griffo.
E invece, nella realtà, cosa succede, quali interventi riceve un disabile grave a Rieti, “cenerentola” delle Province del Lazio pur essendo a soli 80 chilometri dalla capitale? Se si eccettua l’indennità di accompagnamento (ma ancora per quanto ne avremo diritto?), assolutamente zero. Ma si sa, io sono una persona fortunata perché ho conquistato una prestigiosa posizione lavorativa (sono dirigente amministrativo presso l’ASL di Rieti), che mi consente di spendere oltre 25.000 euro all’anno per l’assunzione di un badante a tempo pieno, per la retribuzione di altri assistenti (per i fine settimana, le ferie, le eventuali malattie e/o assenze improvvise del titolare), per una colf alcune ore la settimana, per il trasporto (ho un Berlingo attrezzato con pedana elettrica di mia proprietà, pagato nel 2002 la cifra di 24.000 euro, che spero vivamente non subisca guasti poiché il Comune non assicura servizi sostitutivi a chiamata con pullmini accessibili e – quindi – in caso di indisponibilità del mezzo, sono completamente bloccato).
Ma, si dirà, e la Legge 162/98, la normativa che prevede piani di assistenza personale autogestita per i disabili gravi? Qui è doverosa una premessa, ossia bisogna spiegare che nel periodo 1999-2000 – nel quale operavo come membro del Coordinamento Provinciale delle Associazioni dei Disabili, che riuniva tutte le sigle presenti con loro sedi nella Provincia di Rieti – ho contribuito in prima persona all’avvio dei primi progetti attivati e finanziati in ambito comunale (sei complessivamente), uno dei quali mi riguardava personalmente.
Nel corso degli anni seguenti – con la distrettualizzazione delle prestazioni socio-assistenziali, ma, soprattutto, con la contrazione delle risorse erogate e l’assenza degli Enti Locali nella compartecipazione al budget disponibili – si è ampliato il numero degli aventi diritto e si sono introdotti nuovi parametri per la graduazione degli assegnatari dei contributi, tra i quali, ovviamente, l’indicatore ISEE ha assunto un peso predominante. Appare chiaro, quindi, che chiunque disponga di un reddito da lavoro o personale superiore – ad esempio – a quello delle prestazioni assistenziali di norma godute da un disabile (pensione di invalidità/inabilità + indennità di accompagnamento) risulta automaticamente collocato agli ultimi posti della graduatoria, a prescindere da qualsiasi valutazione degli effettivi bisogni di assistenza personale, dell’effettivo contesto socio-ambientale, dei supporti familiari e sociali disponibili.
Per un assurdo paradosso, insomma, si penalizzano coloro che – con enorme impegno e quotidiano sacrificio – sono riusciti a conquistare un ruolo attivo nella società, passando dalla condizione di assistiti a quella di lavoratori e contribuenti, sconfiggendo l’handicap – almeno sul posto di lavoro – e raggiungendo sul campo il riconoscimento sociale e i diritti di cittadinanza a troppi tuttora negati!
In breve: nel 2009 ho ricevuto l’ultimo contributo dal Distretto per il mio piano di assistenza personale autogestita, per un importo annuo di 3.000 euro (tremila) circa!? Nella graduatoria attuale sono intorno al quarantesimo posto (su circa sessanta domande) e quindi reputo, ben che vada, che il finanziamento sarà analogo al precedente.
Ciò che è singolare – e per questo mi piace citarlo – per una sorta di “nemesi” involontaria – termine certamente ridondante, ma in questo caso credo opportuno – tutti i mesi provvedo, per conto dell’Azienda, ad autorizzare e liquidare le rette per il mantenimento in Istituti di riabilitazione (?), sia regionali che extraregionali, dei disabili della nostra Provincia da anni istituzionalizzati in strutture che costano alla collettività mediamente dai 3.500 ai 4.500 euro al mese, per i quali altresì la Regione Lazio ha introdotto, dal 2010, una quota di compartecipazione alla spesa da parte dell’utente (o, meglio, della sua famiglia) di oltre 1.000 euro mensili.
E d’altronde sussiste una macroscopica sperequazione nell’assegnazione delle risorse regionali tra zone metropolitane e aree periferiche, e ciò specialmente nella Regione Lazio, che vede la quasi totalità dei finanziamenti drenati da Roma Capitale, considerato che il riparto dei fondi per il sistema integrato dei servizi sociali (vedi la Deliberazione della Giunta Regionale 560/08) viene effettuato per il 90% in base alla consistenza demografica e per il restante 10% in base alla superficie territoriale degli ambiti distrettuali. Chiaramente, quindi, il disabile residente in un contesto periferico subisce una doppia o tripla penalizzazione: la carenza di servizi sul territorio, la scarsità di risorse erogabili per interventi di supporto all’integrazione, la mancanza spesso di Amministratori Pubblici in grado di programmare e gestire adeguatamente le politiche sociali, garantendo i necessari finanziamenti ai servizi presenti.
La consapevolezza di tale situazione faceva affermare a Bruno Tescari, primo Presidente della FISH Lazio (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) negli anni 1998-99, che compito precipuo della Federazione Regionale doveva appunto essere la tutela dei «diritti dellìhandicappato di Saracinesco» [Saracinesco è un Comune della Provincia di Roma che con 164 abitanti all’ultimo rilevamento Istat, risulta essere il Comune meno popolato di tutta la Provincia, N.d.A.] – con ciò intendendo chiaramente la necessità di rivendicare pari opportunità nell’accesso ai servizi al di là delle contingenze economiche, sociali, geografiche che connotano la condizione delle persone con disabilità nel nostro Paese.
E allora, per tornare al problema principale, in che modo tutelare, qui ed ora, «i diritti umani di quelle persone che hanno necessità di maggiori sostegni», per usare la corretta e innovativa definizione offerta da Giampiero Griffo nel suo articolo?
Voglio qui tentare di abbozzare qualche idea al riguardo, premettendo che si tratta, a mio avviso, di una questione decisiva sulla quale impegnare tutto il movimento associazionistico dei disabili attivo in campo nazionale, a cominciare dalle due principali Federazioni esistenti – la FISH e la FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità) – spesso unite in battaglie comuni, ma senza escludere movimenti di rilevanza anche sovranazionale, come ENIL (European Network on Independent Living) e DPI (Disabled Peoples’ International), che hanno spesso tracciato strade innovative nell’affermazione dei diritti alla vita indipendente e dell’autonomia personale e sociale della persona con disabilità.
Entrando nel merito, premetto che – per la problematica specifica qui affrontata – la via giudiziaria mi appare poco percorribile e scarsamente efficace. Infatti, pur risultando ormai presenti nell’ordinamento importanti norme antidiscriminatorie, quali la Legge 67/06, e la Convenzione ONU sia stata recepita dallo Stato Italiano con la già citata Legge 18/09, la disposizione di cui all’articolo 5, comma 3 della Convenzione stessa, che dispone: «Al fine di promuovere l’uguaglianza ed eliminare le discriminazioni, gli Stati Parti adottano tutti i provvedimenti appropriati, per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli», richiamata da Griffo nel suo articolo, mi appare francamente poco cogente sul piano giurisdizionale, per fondare un eventuale ricorso mirante al riconoscimento di un diritto soggettivo a misure o sostegni a carattere socio-assistenziale.
Non bisogna dimenticare, infatti, che la legislazione fondante il sistema dei servizi socio-assistenziali, e nello specifico – per citare le fonti principali – la Legge 328/00 e, in quanto riferita alle casistiche della disabilità, la Legge Quadro sull’Handicap 104/92, non configura in nessun caso obblighi perentori delle Amministrazioni ad effettuare interventi o erogare servizi ai quali corrisponda una pretesa giuridicamente azionabile dell’avente diritto, ma prevedono o consentono ai Soggetti pubblici competenti di promuovere azioni, interventi e servizi «nei limiti delle disponibilità di bilancio».
A questo proposito, un legale vicino alle associazioni, genitore di una ragazza disabile e autore di numerosi ricorsi al TAR in materia di sostegno scolastico, mi ha confermato l’impraticabilità – almeno per la prassi consolidata del citato Organo Giurisdizionale – di un ricorso diretto al riconoscimento di un diritto soggettivo all’assistenza personale.
E allora, come operare, quali le strategie più efficaci da perseguire per ottenere risultati concreti o, comunque, contrastare la deriva montante fondata sul principio di commisurare il sostegno da erogare in relazione – principalmente e in modo pressoché esclusivo – al reddito, personale o familiare, della persona con disabilità?
Ricordo con chiarezza che – nel periodo 1999-2000 – la FISH Lazio, di cui sono stato con la mia Associazione tra i Soci fondatori, elaborò dei criteri atti a definire le situazioni di “disabilità gravissima”, da inviare alla Regione Lazio – che stava elaborando le delibere attuative della Legge 162/98 – allo scopo di costituire una condizione di priorità per l’accesso ai contributi, considerato comunque che requisito base restava il riconoscimento dell’handicap grave (come da articolo 3, comma 3 della Legge 104/92), che tutti gli aspiranti dovevano comunque possedere.
Si stabilì pertanto che si configurava “disabilità gravissima” in caso di sussistenza di almeno due delle seguenti condizioni:
a) deficit intellettivo grave;
b) impossibilità alla deambulazione;
c) impossibilità a mantenere il controllo sfinterico;
d) impossibilità, se di età superiore ai 10 anni, all’assunzione del cibo, o/e a lavarsi o/e a vestirsi.
Tale proposta è stata recepita, sostanzialmente, dalle Linee Guida Regionali successivamente emanate, pur se affiancata dal criterio reddituale fondato sulla dichiarazione ISEE, che ne ha ridotto gli effetti e che – almeno nell’interpretazione, a mio avviso non corretta, datane nel Distretto Socio-Sanitario di Rieti – ha finito per privilegiare nell’erogazione dei contributi i soggetti con grave deficit intellettivo non istituzionalizzati, finendo così per utilizzare a scopo assistenziale fondi integrativi eminentemente destinati, secondo lo spirito della legge, ai piani individualizzati di assistenza personale autogestita.
Credo invece che occorra lavorare su più fronti, unendo le forze associative al di là di ogni possibile interesse corporativo, costruendo alleanze con le forze politiche e sindacali disponibili a farsi portatrici nelle sedi istituzionali delle nostre piattaforme contrattuali, scendendo in lotta – come extrema ratio, qualora non sussistano ulteriori margini di mediazione – utilizzando la debolezza dei nostri corpi come arma di rivendicazione dei nostri diritti umani e di cittadinanza.
E quindi voglio chiudere questo mio contributo, che intende coniugare la necessaria riflessione teorica con l’esperienza pratica di chi vive – in prima persona – l’esperienza della disabilità (fisica) grave, indicando alcuni punti meritevoli di impegno e approfondimento già dai prossimi incontri con i rappresentanti del Governo tecnico, che dovrà tracciare le linee della riforma del welfare del nostro Paese per i mesi a venire:
– una profonda modifica dei criteri di riconoscimento dell’invalidità, basata su una valutazione multifattoriale, secondo i criteri sanciti dalla Convenzione ONU;
– la distinzione tra previdenza e assistenza, origine e causa di molte delle distorsioni del sistema di finanziamento delle prestazioni di sostegno alle persone con handicap;
– la necessità di proporre misure di riconversione delle risorse, sia sociali che sanitarie, attualmente erogate per l’istituzionalizzazione dei disabili (per lo più psichici) gravi, prevedendo, in tutti i casi ove ciò sia possibile, un loro rientro nel contesto sociale di appartenenza, attraverso gli opportuni supporti dei servizi territoriali;
– una riconsiderazione del criterio esclusivo della dichiarazione ISEE per l’accesso ai contributi e ai servizi, da sostituirsi eventualmente con l’introduzione di meccanismi di compartecipazione alla spesa da parte di coloro che dispongono di un adeguato livello di reddito.
Si tratta di un impegno decisivo e dall’esito non scontato, che dobbiamo affrontare con il massimo spirito unitario, pur nella legittima diversità di opinioni, interessi e strategie che caratterizza – e spesso arricchisce sul piano teorico – il nostro “movimento”.
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